La Cina non abbandona la via delle centrali a carbone
La transizione alla Casa Bianca è in pieno svolgimento; e di sicuro tra i dossier più importanti c’è il rapporto che Joe Biden intende stabilire con la Cina: definirà la sua presidenza e probabilmente anche il nuovo ciclo della globalizzazione.
E qui bisogna dare parecchio credito a Trump, perché la novità del suo duro approccio con Pechino – non più alleato potenziale, ma temibile rivale strategico – è condiviso ormai da buona parte dell’establishment democratico.
Ma se gli obiettivi sono gli stessi, cioè arginare l’accelerazione cinese, il metodo cambia. Biden crede nella diplomazia, nel sistema multilaterale e vuole coinvolgere pienamente gli alleati in Asia ed Europa.
Continueranno politiche dolorose per la Cina, l’embargo a Huawei e le sanzioni nel campo dell’intelligenza artificiale e delle telecomunicazioni 5G. Su alcune questioni, però, Biden ha bisogno dell’aiuto di Pechino.
Un indizio è la nomina di John Kerry come inviato speciale per il clima.
Se la Cina non collabora, si può fare ben poco contro i cambiamenti climatici. Per parte sua, la Cina è abituata da anni a bilanciare rivalità da un lato e cooperazione con gli Stati Uniti dall’altro.
Sa essere pragmatica, e ha fatto progressi fantastici nella cura ambientale.
Ora che gli Stati Uniti tornano negli accordi sul clima di Parigi, Biden proverà a intensificare l’approccio comune su questo tema, soprattutto con la Cina, che nel frattempo ha annunciato di voler raggiungere, entro il 2060, emissioni nette di anidride carbonica pari a zero (l’Europa ci vuole arrivare nel 2050).
E in effetti il governo cinese sta facendo molto per avvicinarsi a quest’obiettivo. Ha costruito un massiccio settore delle energie rinnovabili e spende per l’energia nucleare (decisamente più pulita di quella fossile) di gran lunga più di qualsiasi altro paese.
Ma non tutti i segnali sono positivi. Per esempio, c’è l’ostacolo del carbone, il vecchio combustibile da cui qualche secolo fa è partita la rivoluzione industriale.
Inquina parecchio e ormai non è neanche più la fonte d’energia meno costosa. Andrebbe mandato rapidamente in pensione.
L’Occidente, che deve al carbone la propria ascesa economica, lo sta facendo ormai da anni; mentre in America del sud e Africa questo combustibile non è mai veramente entrato nel mix energetico.
Sono invece i grandi paesi dell’Asia a farne un uso ancora massiccio, è lì che si consuma l’80% del carbone mondiale, oltre la metà si consuma in Cina.
I precedenti storici non sono molto rassicuranti. Quando l’economia rallenta, la Cina sembra perdere interesse a inquinare di meno.
È successo durante la crisi del 2008: il governo ha reagito con investimenti enormi nell’industria pesante. L’uso del carbone poi è sceso tra il 2014 e il 2016, ma è salito di nuovo in una fase economica meno brillante.
Per tutto il 2019 la costruzione di centrali di carbone è aumentata rapidamente. E lo stesso è accaduto nei primi sei mesi del 2020.
Dai governatori provinciali questo tipo di sviluppo è ancora visto come un modo sicuro per sostenere lavoro ed economia. Inoltre, la lobby del carbone è potente, e per ovvie ragioni appoggia questa crescita.
Molti analisti sono preoccupati. Il punto è proprio capire l’effetto della crisi globale da coronavirus sui piani energetici cinesi. Dovendo affidarsi meno all’export, e tenendo conto dell’economia debole nel resto del mondo, la Cina, per forza di cose, tenta di accelerare lo sviluppo domestico.
Il rischio è che la crescita venga da progetti di costruzione grossi e molto inquinanti.
“In Cina il carbone è ancora incredibilmente importante dal punto di vista dell’approvvigionamento energetico e della sicurezza, e i governi locali non credono che sia possibile sbarazzarsene immediatamente”, ha dichiarato in un’intervista al Financial Times Yang Yingxia, ricercatrice dell’Istituto per le energie rinnovabili dell’Università di Boston.
Poi ha aggiunto: “Non penso che il governo cinese abbia un’idea chiara di come raggiungere zero emissioni nette di Co2 entro il 2060”.
Il bivio è cruciale, anche perché dal carbone dipende poco più dell’80% delle emissioni di anidride carbonica cinesi. È fondamentale quindi non aggiungere altri impianti.
Già adesso, avvertono alcuni scienziati, l’utilizzo fino a esaurimento della capacità esistente (di produrre energia attraverso il carbone) potrebbe facilmente spingere il mondo oltre i limiti dell’accordo di Parigi.
A questo punto, se l’obiettivo è lasciare sotto terra il carbone, vale la pena capire come ci stia riuscendo l’Occidente.
Il declino del carbone è stato reso possibile da tre cose che si rafforzano a vicenda: scelte politiche dei governi, alternative d’energia più economiche e limiti nell’accesso ai finanziamenti.
Innanzitutto, l’Europa ha applicato regole più severe alle emissioni di Co2. Bruciare carbone è diventato molto più costoso negli ultimi anni.
A questo si aggiungono le politiche adottate dai singoli Stati: ben 16, nell’Unione Europea, hanno concepito un piano per eliminare gradualmente il carbone o ne stanno valutando uno. Possono farlo anche perché esistono fonti alternative d’energia.
Grazie a incentivi ed economie di scala, rinnovabili come eolico e solare diventano più efficienti ed economiche.
Ma non si tratta solo di rinnovabili, negli Stati Uniti, è stato merito più che altro dei gas naturali ottenuti con la tecnica del “fracking”.
Salvare il carbone, “bello e pulito”, prometteva Trump.
Inutile: nel 2019 l’elettricità prodotta col quel combustibile è stata del 20% inferiore rispetto al 2016, l’anno in cui è stato eletto.
Ora questo declino va accelerato, esteso e prolungato.
Vien da chiedersi se i vari movimenti di sardine, ecologisti e gretine avranno qualcosa da commentare a proposito del carbone cinese.
Salvarico Malleone
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