Liberi i 18 marinai prigionieri in Libia governo umiliato
Dopo 108 giorni di umiliante detenzione gli equipaggi dei due pescherecci italiani detenuti senza alcuna incriminazione a Bengasi dalle autorità del ducetto Khalifa Haftar sono finalmente liberi e potranno rientrare a Mazara del Vallo e raggiungere i loro famigliari dopo tre mesi e mezzo di angoscia.
Una gioia per tutti ma un insuccesso politico, un fallimento diplomatico per l’Italia, non solo a causa dei lunghi tempi che si sono rivelati necessari per giungere alla soluzione di questo sequestro ma anche per le umiliazioni subite e il prezzo che l’Italia ha dovuto pagare, peraltro non ancora del tutto chiaro nella sua reale dimensione.
La passerella a Bengasi del premier Giuseppe Conte e del ministro degli Esteri Luigi Di Maio è stata fuori luogo e grave per almeno due ragioni.
Innanzitutto i due leader hanno cercato gloria e visibilità a ridosso del Natale e nel momento di massima difficoltà del governo, ma non hanno nulla di cui vantarsi.
*In questa vicenda l’Italia è stata umiliata per oltre cento giorni nella sua ex colonia dove molti dei nostri interessi nazionali sono in ballo.
La scorsa settimana i turchi hanno ottenuto la liberazione di una loro nave catturata dalle motovedette di Haftar in soli sei giorni, semplicemente minacciando risposte muscolari se non vere e proprie rappresaglie ma né Recep Tayyp Erdogan né il ministro degli Esteri, Mehgmet Cavusoglu, hanno raggiunto Bengasi per omaggiare il generale.
La seconda ragione è legata alla legittimazione di Haftar che, dall’incontro con Conte e Di Maio, esce rafforzato sullo scenario interno e internazionale, tornando a mostrarsi come protagonista indiscusso della crisi libica e delle sue possibili soluzioni ottenendo un ampio riconoscimento dall’ex potenza coloniale: simbolismi che da quelle parti hanno un forte significato.
Un ruolo da cui era stato negli ultimi mesi emarginato, dopo la sconfitta nella battaglia per Tripoli e dopo l’ascesa del presidente del parlamento di Tobruk, Agila Saleh, a figura politica di spicco della Cirenaica.
Forse Haftar ha preteso la visita delle massime autorità italiane e, del resto, per Di Maio incontrare il capetto a Bengasi era un atto dovuto o forse riparatorio.
Non sfugge infatti che il sequestro dei due pescherecci è avvenuto a inizio settembre, poche ore dopo che il ministro Di Maio si era recato a Tripoli e poi a Tobruk per incontrare i leader delle “due libie”.
Di solito, in Cirenaica, incontrava il generale Haftar, ma nel suo ultimo viaggio è andato a colloquio con Saleh, considerato “l’uomo nuovo” della Cirenaica, l’interlocutore a cui rivolgersi dopo che la stella di Haftar sembrava avviarsi verso il tramonto.
Quale prezzo sia stato pagato, anche in termini politici, per ottenere la liberazione di pescatori e pescherecci, sarà chiaro probabilmente solo nei prossimi giorni ma non c’è dubbio che vedere i vertici del nostro governo stringere la mano all’uomo che ha preso in ostaggio per oltre tre mesi navi ed equipaggi italiani costituisce un’ulteriore umiliazione per Roma la cui immagine e credibilità escono a pezzi da questa vicenda, come da tante altri episodi internazionali.
Tra le carte che Roma avrebbe potuto giocare vi era anche la non esclusione di opzioni militari e la minaccia di usare la forza contro chi lede gli interessi e prende in ostaggio i cittadini italiani.
Persino il vescovo di Mazara del Vallo, monsignor Domenico Mogavero, che non può certo essere definito un guerrafondaio, ha evocato il ricorso alla deterrenza militare affinché non si ripetano nuovi sequestri di pescherecci.
“Quanto meno portate le nostre navi della Marina Militare al limite delle acque territoriali libiche e fate sorvolare dai nostri aerei la zona per dare il segnale che ci siamo e che non siamo disposti ad accettare ancora lungo questi diktat del governo di Bengasi” ha affermato l’alto prelato rivolgendosi al governo.
Quanto meno avremmo potuto evitare la “processione” governativa da Haftar lasciando che a gestire il ritorno a casa dei nostri connazionali provvedessero i nostri validi servizi d’intelligence, che costituiscono però uno strumento della politica estera, non un’alternativa ad averne una.
La conclusione della vicenda degli ostaggi di Bengasi è una buona notizia per i 18 prigionieri ma, per come è stata ottenuto, non per l’Italia e il suo governo.
Un contesto che potrebbe aggravarsi ulteriormente quando sarà più evidente il prezzo che Roma ha dovuto pagare ad Haftar.
Il feldmaresciallo si sarà accontentato di trovarsi di fronte Conte e Di Maio col “cappello in mano”, elemento che ha certo rafforzato l’immagine di Haftar anche presso le tribù che lo sostengono.
Non è chiaro se il generale abbia ottenuto da Roma anche la liberazione (magari non immediata) di quattro rampolli di alcuni clan a lui fedeli, uomini definiti a Bengasi “calciatori”, ma in carcere in Italia con pesanti condanne per aver gestito il traffico di esseri umani e provocato la morte di molti migranti.
È evidente che cedere a questo ricatto significa ridicolizzare la Giustizia e potenzialmente doversi preparare anche ad accettarne di simili in futuro, trasformando in preda preziosa ogni italiano che per lavoro o altre ragioni si trovi in paesi instabili.
Non ci sono al momento notizie in proposito, ma è curioso che il sindaco di Mazara del Vallo, Salvatore Quinci, celebrando il prossimo ritorno a casa dei pescatori, abbia incluso nella lista delle autorità che ha ringraziato anche il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede.
Raimondo Adimaro
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