Il pessimo esempio della democrazia a stelle e strisce
Ci vorrà del tempo per ricostruire in maniera dettagliata la dinamica dell’irruzione negli edifici del Congresso americano da parte di centinaia di persone.
Nei filmati si nota una certa resistenza della polizia, ma anche uomini in uniforme che si fanno da parte lasciando passare i manifestanti.
Nell’edificio la folla ha occupato ogni luogo, gli eletti sono stati scortati nell’area protetta assieme alle valigie che raccolgono i documenti ufficiali con i risultati elettorali.
Una donna è morta uccisa dalla polizia che intimava l’alt a un gruppo che correva verso delle guardie armate, poliziotti del Congresso che rispondono al Congresso, negli Usa la polizia cittadina risponde al sindaco, poi c’è la guardia nazionale, poi i federali; il coordinamento se non preventivo è spesso caotico.
Dentro e fuori sono stati accesi fumogeni ed esplose bombe carta. Nel complesso una scena che non avremmo immaginato di vedere a Washington, che lascia diversi interrogativi sul comportamento e la capacità di raccolta di informazioni da parte delle agenzie di intelligence: l’attacco era evidentemente coordinato e su Parler, social network caro all’estrema destra trumpiana, se ne trovano le tracce.
Sono state arrestate 52 persone di cui solo 5 durante gli scontri.
Le manifestazioni del giorno prima, i toni assunti mentre in Georgia un afroamericano e un ebreo strappavano i seggi a due repubblicani bianchi e cristiani, regalando la maggioranza ai democratici, lasciavano intuire cosa sarebbe successo.
Dal palco parlavano Roger Stone, il pittoresco stratega condannato in tribunale e graziato da Trump, oratori che spiegavano come il Coronavirus sia un falso e Alex Jones, incendiario radio host di estrema destra, gran cerimoniere delle teorie del complotto.
Il resto è storia: il giorno dopo dal palco della “March to Save America” ha parlato anche Trump, incoraggiando i manifestanti a marciare su Capitol Hill.
Il presidente ha definito l’esito delle elezioni «un assalto alla nostra democrazia» invitando la folla a «marciare sul Campidoglio» dove «faremo il tifo per i nostri coraggiosi senatori e probabilmente non faremo tanto il tifo per alcuni di loro, perché non riprenderemo mai il Paese essendo deboli».
Le responsabilità di Trump e i timori che la sua rabbia gli faccia fare nuove uscite pericolose hanno determinato il blocco dei suoi account da parte dei social media e acceso discussioni interne all’amministrazione sulla possibilità di usare il 25° emendamento per rimuoverlo dall’incarico e sostituirlo con Pence prima dell’inaugurazione del 20 gennaio.
Nonostante quanto avvenuto nelle ore precedenti, quando Senato e Camera si sono riuniti in seduta congiunta, il senatore Ted Cruz e altri, assieme a diversi rappresentanti, hanno avanzato obiezioni riguardo al voto in Arizona e a quello in Pennsylvania.
Le obiezioni sono state respinte e molte delle firme su quei ricorsi sono state ritirate dopo le violenze. Eppure diversi rappresentanti hanno usato toni duri, echeggiando quelli del presidente, che persino a certificazione avvenuta prometteva una transizione tranquilla ma ribadiva che le elezioni sono state rubate.
L’eletto della Florida Gaetz che i manifestanti erano in realtà antifa travestiti, e sette senatori hanno votato contro la certificazione del voto. Il processo si è probabilmente svolto in maniera più ordinata di quanto non sarebbe accaduto se non ci fosse stata l’irruzione della folla: alcuni sostenitori di Trump hanno fatto un passo indietro, e tra questi il senatore Lindsey Graham e i due ex senatori della Georgia che hanno dichiarato che non presenteranno i ricorsi che avevano annunciato.
Ben Sasse del Nebraska ha scritto: «Oggi il Parlamento è stato saccheggiato, mentre il leader del mondo libero si nascondeva dietro alla sua tastiera e attaccava il suo vice per aver fatto il suo dovere.
Le bugie hanno conseguenze e la violenza è l’inevitabile prodotto della ossessione presidenziale di fomentare le divisioni». E questo ci porta al dilemma del Partito repubblicano.
Come era naturale, oggi è in corso una presa di distanze collettiva, ma non da parte di tutti gli eletti repubblicani a Washington.
Secondo un sondaggio YouGov un elettore americano su cinque e circa la metà dei repubblicani approvano quanto accaduto a Capitol Hill (e questo spiega molte cose).
Da parte dell’ala trumpiana verranno correzioni di tiro, spiegazioni, ma il punto è che anni di teorie del complotto e l’aver dipinto Biden e la sua amministrazione come pericolosi socialisti ha accentuato la faglia che già attraversava l’opinione pubblica.
In alcuni Stati e distretti elettorali, oggi, per vincere le primarie repubblicane serve raccogliere i voti dell’ala estrema e diversi politici ne fanno parte mentre altri usano quel consenso per mantenere le proprie posizioni.
È evidente che con una nuova amministrazione, ed essendo divenuti minoranza in Senato, i repubblicani dovranno scegliere tra una qualche forma di dialogo o i toni dell’ultimo anno. Oppure dividersi.
Quanto e come peserà il ruolo di Trump e quanto il presidente uscente abbia intenzione di proseguire in questo gioco al massacro delle istituzioni è una domanda a cui non si può dare risposta oggi.
Certo, Trump ha aperto i cancelli e diverse figure di politici nazionali possono aspirare a prenderne il posto.
Veniamo al domani. Le scene di questi mesi e quelle di queste ore non hanno fatto un servizio al ruolo dell’America nel mondo.
Lo ha ben spiegato il presidente Biden nel discorso tenuto mentre la crisi era in corso: «La democrazia è fragile e va conservata, e richiede leader che non inseguono i propri interessi ma il bene comune, pensate a cosa pensa il resto del mondo».
Ecco, la nuova amministrazione si trova di fronte il compito immane di riparare il danno interno e internazionale procurato da quattro anni di amministrazione Trump, ristabilire relazioni e tornare a far credere che la parola data abbia valore (chiedere ai Curdi, agli iraniani o ai firmatari degli Accordi di Parigi).
Si tratta di un compito difficile, lo era prima di ieri e da ieri lo è ancor di più.
Nonostante le istituzioni democratiche abbiano dimostrato di essere solide, l’assalto al Congresso è il timbro finale evidenziando che l’America non è stata un faro sulla collina.
Niccolò Rejetti
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