Troppe restrizioni immotivate tra confusione e leggerezza
Da circa un anno con decreti legge, con atti amministrativi come i dPCM, con atti di urgenza di singoli ministeri o delle regioni, perfino con ordinanze dei capi degli uffici giudiziari, sono state ristrette – in modo più o meno sensibile, ma comunque con un continuativo tasso di incisività – alcune nostre libertà fondamentali: la libertà di circolazione, la libertà di iniziativa economica, nel primo lockdown la libertà religiosa.
Sono stati bloccati o fortemente ridotti nella loro funzionalità settori cruciali come la scuola, l’attività sanitaria non strettamente correlata alla cura dei contagiati da Covid, la giustizia.
Si è tollerato senza particolari resistenze non già uno stato di emergenza ma – per come è stato correttamente qualificato da più d’un giurista – uno “stato di eccezione”, una zona intermedia tra il giuridico e l’extra-giuridico, tra la legge e l’esercizio della forza.
Nel momento in cui potrà ritenersi chiusa la pesante deroga alla ordinaria funzionalità dell’ordinamento, si dovrà verificare in che modo e entro quali tempi ripristinare regole di garanzia, di efficienza e di libertà compresse da più mesi.
In un quadro così confuso e precario, rischia di perdersi la distinzione fra quel che è stato ed è accettato, con maggiore o minore condivisione, perché esito dello stato di eccezione, e quel che con la situazione eccezionale non ha nulla a che vedere, e però non viene colto nella sua portata, poiché si perde nel calderone generale; ovvero assume esclusivamente una chiave di lettura di contrapposizione politica, quando invece – al netto delle polemiche fra i partiti – ha un suo obiettivo peso istituzionale.
Provo a formulare tre esempi che con la gestione dell’emergenza Covid 19 o non hanno nulla a che fare (i primi due a seguire), o ne rappresentano effetti non necessitati (il terzo).
1° esempio. Nel 2007 una legge approvata da tutti i gruppi politici – la n. 124 – ha riformato i Servizi di informazione e sicurezza.
Fra gli snodi più significativi vi fu lo sforzo di eliminare zone d’ombra, definendo ciò che spetta ai Servizi e quel che invece compete all’autorità politica che con essi interloquisce, in primis in Governo.
L’art. 3 della legge 124/2007 stabilisce che “Il Presidente del Consiglio dei ministri, ove lo ritenga opportuno, può delegare le funzioni che non sono ad esso attribuite in via esclusiva soltanto ad un ministro senza portafoglio o ad un sottosegretario di Stato”, per questo denominati “Autorità delegata”.
I compiti dell’Autorità delegata sono impegnativi: non è un caso se, con rare e giustificate eccezioni, i Presidenti del Consiglio precedenti l’attuale non li abbiano trattenuti per sé, ma li abbiano invece delegati.
La ragione è evidente: il Primo ministro ha un tale carico di incombenze da non potersi dedicare come la materia impone a tutti i profili di rilievo politico-istituzionale dell’attività dei Servizi.
Da oltre due anni e mezzo, cioè dal primo Esecutivo Conte, la responsabilità politica per i Servizi è rimasta in capo al Primo Ministro.
Delle due l’una: o quest’ultimo segue il settore in modo così assorbente e puntuale da trascurare l’enorme complesso di attività che su di lui incombe quotidianamente; oppure il solo fatto di star dietro alle mille emergenze di ogni giorno gli impedisce di interessarsene come sarebbe necessario.
La disastrosa vicenda dei pescherecci italiani sequestrati dal ibici, inclusa la legittimazione conferita a chi ha ordinato il loro sequestro, ultima di una serie di figuracce, farebbe propendere per la seconda ipotesi. Al momento della “verifica” la delega ai Servizi è diventata una delle tante vo ci del contenzioso politico, riducendosi di fatto a una poltrona rivendicata dai partiti diversi dal M5S.
È sfuggito il punto centrale: l’equilibrio di un sistema che può reggere se, nel rispetto dei ruoli di ciascuno, gli apparati tecnici e il vertice istituzionale interloquiscono continuativamente, in modo leale e reciprocamente affidabile, essendo pronti in qualsiasi momento a renderne conto nel Parlamento, con le garanzie di riservatezza che offre il Copasir.
2° esempio. Il CSM, nella sua attuale composizione, è stato eletto da poco più di due anni: la componente togata è di 16 unità, cui si aggiungono il Presidente e il Procuratore generale della Cassazione, che vi siedono di diritto.
A seguito dello scandalo che dal giugno 2019 ha coinvolto una parte significativa della magistratura italiana, riduttivamente qualificato come “caso Palamara”, sette di costoro sono stati costretti alle dimissioni, mentre un ottavo (Davigo) è stato “dimissionato” dal Consiglio per aver raggiunto l’età pensionabile: 8 su 18 sono tanti.
I subentri dei dimissionari sono avvenuti in tempi diversi, e uno è ancora in corso: 2 nuovi consiglieri sono entrati con lo scorrimento delle liste dei candidati, 3 con due distinte elezioni suppletive nel 2019, mentre la terza elezione suppletiva è stata fissata per l’11 e 12 aprile (e che fretta c’è?). In più, l’attuale vicepresidente è incompatibile con la presidenza della sezione disciplinare per taluni procedimenti attualmente pendenti.
Quale legittimazione avrebbe un Parlamento in cui in appena due anni per ragioni legate a scandali, facendo le proporzioni coi dimissionari del CSM, fossero costretti a lasciare l’incarico 280 deputati e 240 senatori, con uno dei presidenti impedito a condurre taluni lavori d’Aula?
Si andrebbe avanti a scorrimenti ed elezioni suppletive, o si percorrerebbe la strada maestra dello scioglimento delle Camere?
Quella che per Camera e Senato è una domanda retorica, per il CSM è questione che non si pone nemmeno: la sua oggettiva delegittimazione è parte del problema della magistratura italiana.
Ma è un problema, di enorme rilievo istituzionale, che nessuno si pone, neanche in chiave di discussione politica.
3° esempio. Per decidere il c.d. Recovery plan, cioè la destinazione delle risorse finanziarie messe a disposizione dall’UE per la ripresa post pandemia, il Presidente del Consiglio aveva deciso l’istituzione dell’ennesima commissione di tecnici.
Questa vicenda, come la prima, è diventata occasione di scontro politico.
Ma pone un nodo importante: a che servono i ministeri?
Se questi ultimi sono le articolazioni dell’Esecutivo nei differenti settori istituzionali, cioè coloro cui spetta dare veste tecnica alle scelte politiche del Governo, non sono delegittimati dall’essere saltati a pié pari di fronte al lavoro di ricostruzione più imponente dopo quello post bellico?
Non sono competenti? Non sono affidabili? la pandemia fornisce l’occasione per la loro radicale riforma. I ministri non riescono a far lavorare insieme i dicasteri che conducono?
E allora la riforma dovrebbe interessare il personale di Governo.
Su ciascuno dei tre fronti – ma gli esempi si potrebbero moltiplicare – la sola scelta non ammissibile è lasciar correre.
Il rispetto per le istituzioni si impone anzitutto a chi le rappresenta, poi – scendendo “per li rami” – a tutti.
Non è un optional: il prezzo del loro mancato rispetto non sempre è recuperabile.
Non si riduce ad affermazioni contenute in un discorso più o meno solenne.
Non è questione di una poltrona in più o in meno. Interessa la vita della Nazione, e si proietta oltre il Coronavirus.
Alfredo Mantovano consigliere di sezione penale alla Corte di Cassazione
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