Prodi e le volute leggerezze dell’entrata nell’euro
A distanza di anni affiorano colpe e manchevolezze di quanti hanno barattato la Lira nell’ingresso in Europa del nostro Paese.
L’ex presidente del Consiglio Romano Prodi nei giorni scorsi ha avuto un confronto con il senatore di Fratelli d’Italia Ignazio La Russa a L’Aria che tira, il tema era l’euro.
Siamo tornati a diversi anni fa, ai confronti serrati sul ruolo della moneta unica nei divari di competitività interna all’Unione Europea e sul suo futuro.
La Russa ha rinfacciato a Prodi di aver negoziato un cambio troppo sfavorevole all’Italia con la valuta di riferimento dell’Europa, il marco, nel momento in cui da presidente del Consiglio contribuì a definire la fase intermedia dell’European currency union, Ecu, precedente l’entrata in vigore dell’euro.
Prodi ha segnalato che a suo parere il principale impatto dell’euro sulla competitività dell’economia è stato legato al fronte interno, al mancato controllo sull’evoluzione dei prezzi dopo l’entrata in vigore della moneta unica l’1 gennaio 2002.
Nel dibattito Prodi ha avuto una ragione, sul fronte del cambio. Ma ha aggiunto al discorso diverse inesattezze e, soprattutto, come ha ricordato da La Verità, numerose omissioni che hanno posto il dibattito da un punto di vista estremamente parziale.
Partiamo dal primo punto: il governo Prodi, nel 1996, negoziò con la Germania di Helmut Kohl un cambio di 990 lire per un marco che, al momento dell’ingresso dei primi dodici Paesi nell’area euro, comportò lo scambio di 1936,27 lire con un’unità della moneta unica.
Carlo Azeglio Ciampi (ministro del Tesoro), Mario Draghi (direttore generale del Tesoro), Antonio Fazio e Pier Luigi Ciocca (Banca d’Italia) proposero questo compromesso poi formalizzato da Prodi e Kohl mediando tra la volontà tedesca di vedere un cambio 900-950 a uno e quella italiana di sfondare quota mille.
Il Financial Times riconobbe, ai tempi, a Ciampi una mediazione attenta e capace; ma quando Prodi afferma di aver fatto “salti di gioia” dopo l’accettazione del cambio di 990 a uno da parte di Kohl dimentica di essersi presentato alla trattativa con i tedeschi dopo aver compiuto una drastica manovra correttiva da 16mila miliardi di lire nel giugno precedente per correggere un cambio che era volato a 1250 a uno.
Oro colato per l’export italiano, meno per i tedeschi che chiedevano un’Italia più equilibrata nei loro confronti per non crearsi un pericoloso concorrente.
L’Italia mise i suoi conti pubblici sul piatto per avere il via libera all’entrata nell’euro.
E se da un lato si può dare conto alla tesi secondo cui, ai tempi, per il Paese c’erano poche alternative oltre alla scelta di percorrere il sentiero tracciato a Maastricht nel 1992, dall’altro si può rilevare che ben pochi furono i politici e gli uomini delle istituzioni che si accorsero della necessità di compiere quel viaggio con criterio e razionalità politica.
Tra questi, sicuramente spiccano Draghi e il compianto Guido Carli; Prodi e buona parte della sua compagine di governo, da Pierluigi Bersani (fautore delle liberalizzazioni “alla inglese” di diversi settori) a Tiziano Treu (autore dell’omonimo pacchetto di leggi sul lavoro) furono più propensi a concedere riforme gradite all’Europa che a chiedere contropartite politiche.
Prodi sbaglia completamente sul fronte dei prezzi.
Nel dibattito a La7 ha di fatto scaricato su commercianti ed esercenti una grossa fetta di responsabilità, avallando la tesi secondo cui implicitamente il cambio di prezzo nel commercio sarebbe stato di mille lire per un euro, portando a un aumento generalizzato.
Nulla di più sbagliato, guardando i dati dell’aumento dei prezzi dal 2002 in avanti rilevati dal tasso di inflazione.
“Dal gennaio 2002 (dopo tre anni di euro come moneta bancaria) l’inflazione italiana effettivamente aumentò, da livelli di poco superiori al 2% fino a oscillare tra il 2,5% e il 3%”, commenta La Verità.
“Restò su quei livelli dalla seconda metà del 2002 fino a tutto il 2003. Un tasso di crescita dei prezzi non scandaloso. Basti pensare che la soglia-obiettivo tuttora utilizzata dalla Bce è il 2%”, che le politiche monetarie dell’era Draghi hanno ormai definitivamente sdoganato come target.
Ma la maggiore omissione di Prodi è trasversale a questi due elementi. Se il cambio non fu”sfavorevole” per l’Italia, fu sicuramente relativamente vantaggioso a livello continentale per la Germania.
Che col nuovo millennio inaugurò, imitata dai partner nordici, la strategia mercantilistica fondata sulla deflazione interna, sul contenimento della pressione dei salari e della domanda compiuta attraverso la radicale riforma del mercato del lavoro (riforme Hartz) e il pareggio di bilancio per alimentare la competitività dell’industria nazionale e conquistare quote di mercato grazie all’export.
Già nel 2002 l’inflazione tedesca precipitò in pochi mesi dal 2% circa fino al 0,5%.
Nel 2019 il Cep (Centrum für Europäische Politik) di Friburgo ha pubblicato un report molto dettagliato su vincitori e vinti a vent’anni dalla istituzione della moneta, sottolineando che mediamente tra il 1999 e il 2017, la Germania ha guadagnato circa 1900 miliardi di euro, ovvero circa 23mila euro per abitante, dalle politiche legate all’introduzione dell’euro.
Guadagni connessi al decollo dell’export nazionale e concentrati principalmente nelle mani della grande industria manifatturiera.
Non a caso, se nel 2000 l’export tedesco sopravanzava le importazioni di soli 3 miliardi di dollari, già cinque anni dopo avevano raggiunto quota 148 miliardi di euro.
Per la posizione geo-economica della Germania in Europa le politiche deflazioniste e il contenimento della domanda interna, che sul medio periodo è stato pagato sotto forma di un aumento della povertà e dell’esclusione sociale, furono un vero e proprio trionfo, mentre il Cep ha ricordato che l’Italia per la competizione tedesca (e di altri Paesi come l’Olanda), tesa sostanzialmente a comprimere l’inflazione interna e a sorpassare i partner europei sui differenziali di competitività interni ha perso circa 530 miliardi di euro di Pil potenziale in un ventennio.
Impossibilitata a svalutare la moneta ora comune al resto d’Europa e sfidata sul fronte industriale sul campo del costo del lavoro e dei salari, l’Italia vide quote di mercato sottratte da Berlino.
Chi avrebbe dovuto vigilare su questo meccanismo e evitare che nella moneta unica si verificassero fenomeni di “pirateria” commerciale se non la Commissione Europea?
Quali azioni ha intrapreso la Commissione europea per impedire questo meccanismo rovinoso per gli equilibri della nascente unione monetaria? Non se ne ricorda neppure una.
E chi era a capo della Commissione dal 1999 al 2004, ovvero nella fase più critica per il passaggio all’operatività effettiva dell’euro? Il gaudente Romano Prodi.
Osservatore distratto (volontariamente?) della strategia mercantilistica di Berlino che, forte di una moneta formalmente svalutata, sfruttò a suo vantaggio la rendita di posizione garantitale in campo commerciale e finanziario dal relativo avanzamento della sua condizione rispetto a quella di Paesi come l’Italia.
Che furono vittima più delle conseguenze strutturali ex post legate all’entrata in vigore dell’euro che delle condizioni di partenza.
Solo che Prodi, a quasi vent’anni di distanza, si dimentica di aver omesso completamente la vigilanza sulle prime, e più gravose, determinanti degli squilibri dell’area euro.
Che l’economia italiana ha pagato con una stagnazione proseguita per due decenni e proseguirà a pagare chissà per quanto ancora.
Raimondo Adimaro
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