La cucina e la tavola con il Sommo Poeta nel medioevo
La notte tra il 13 e 14 settembre 1321 a Ravenna si spense il Sommo Poeta a causa della malaria che lo aveva colpito nell’attraversare le Valli di Comacchio.
A 700 anni dalla scomparsa di Dante viene evidenziata come anche le opere del Poeta contribuiscono a sottolineare l’importanza dell’alimentazione nella vita dell’uomo.
Dante visse in un periodo in cui la cucina non era ancora uscita dalla situazione di “oscurità” in cui l’avevano relegata, insieme ad altre espressioni delle umane attività, eventi storici, credenze e consuetudini alto-medievali.
La stragrande maggioranza della popolazione seguiva abitudini alimentari condizionate dall’esiguità dei mezzi finanziari e legate alle sole disponibilità del territorio.
Dal canto loro, e tranne isolate e limitate eccezioni, le élite dell’epoca non avevano ancora maturato una cultura gastronomica e le loro tavole erano dominate dalla quantità e dal costo delle vivande e delle spezie che le insaporivano.
“Grosse lamprede, o ver di gran salmoni/ aporti, lucci senza far sentore./La buona anguilla non è già peggiore;/alose o tinche o buoni storioni./Torte battute o tartere o fiadoni:/queste son cose da acquistar mi’ amore,/o s’e’ mi manda ancor grossi cavretti,/o gran cappon di muda be-nodriti/o paperi novelli o coniglietti”.
Vi è un approccio dantesco alla tavola costituisce buona parte del 125° dei 232 sonetti che compongono il pometto Il fiore, opera che la maggior parte della critica considera una riscrittura compendiosa del Roman de la Rose composta da un Dante ventenne durante un soggiorno in Francia.
Nel sonetto 126 è poi contenuto un fugace accenno a “preziosi vini”.
Tali versi parrebbero delineare il profilo di una persona che non nasconde un certo compiacimento con i piaceri della tavola.
Boccaccio fornisce una testimonianza sui rapporti del Poeta con il cibo, riferito agli anni della maturità, che non lascia adito a dubbi: “Nel cibo e nel poto fu modestissimo, sì in prenderlo all’ore ordinate e sì in non trapassare il segno della necessità” e biasimava chi non si attenesse alle regole della sobrietà affermando “Questi cotali non mangiare per vivere, ma più tosto vivere per mangiare”.
Un’altra testimonianza sul fatto che per Dante i princìpi contavano più del cibo la fornisce Giovanni Sermonti, vissuto fra il 1348 e il 1424, in cui sono descritti 155 episodi di ghiotta cronaca riferiti a personalità dell’epoca: un’opera che probabilmente oggi qualcuno farebbe rientrare nella categoria del “gossip”.
La novella 71 riguarda il divin Poeta che, durante un soggiorno napoletano, venne invitato alla corte di re Roberto d’Angiò e, “Come solean li poeti fare”, si presentò abbigliato con una certa trascuratezza; di conseguenza, “Fu messo in coda di taula” e, al termine del pasto, abbandonò la tavola ostentando il suo disappunto. Il re si rese conto che il trattamento riservato al Poeta era stato inadeguato e lo invitò nuovamente.
Questa volta Dante si presentò con abiti sontuosi e il re lo fece accomodare “In capo della prima mensa”; una volta seduto, il Poeta si strofinò le vesti con i cibi e le bevande che erano state servite e, alla sorpresa del re, replicò: “Santa corona, io cognosco che questo grande onore ch’è ora fatto, avete fatto a’ panni, e pertanto io ho voluto che i panni godano le vivande apparecchiate”.
Il re riconobbe le ragioni di Dante, ordinò che fosse rivestito con indumenti puliti e lo trattenne a corte per trarre altri insegnamenti dalla sua scienza. Nei primi anni del 1300, il Poeta lavorò a un’opera, il cui titolo, Il convivio, innesca nell’appassionato gastronomo la speranza di trovare ulteriori testimonianze di una sua passione per il cibo e la tavola.
Ma, svoltato l’angolo della conoscenza, ecco la delusione: l’intento di Dante è quello di imbandire un banchetto destinato a saziare non già la fame di vivande, ma il desiderio di sapienza degli “animi gentili” che, a causa di impegni familiari o civili, non avessero potuto dedicarsi agli agognati studi.
L’opera si interrompe al quarto dei 15 trattati previsti, perché nel frattempo il Poeta aveva cominciato a dedicarsi alla Comedia, come si chiamò il poema, finché il Boccaccio, nel suo Trattatello in laude di Dante, non vi aggiunse l’aggettivo; il titolo La Divina Comedia apparve per la prima volta solo nella prestigiosa edizione stampata a Venezia da Gabriele Giolito de’ Ferrari nel 1555.
Nel poema dantesco il cibo assume un’accezione prevalentemente negativa, oggetto di quella gola che i padri della Chiesa condannavano come vizio capitale e che si esprime in cinque modi: mangiando fuori tempo, molto frequentemente, ricercando cibi prelibati, eccedendo nella quantità, con soverchia avidità, esagerando nei condimenti.
Ai golosi Dante dedica l’intero VI canto dell’Inferno, facendoli tormentare dal freddo, dal puzzo, dal fango in cui giacciono prostrati, e dai latrati di Cerbero, che “… graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra”, così come loro in vita tagliavano e spolpavano i cibi carnei prima di portarli alla bocca famelica.
Nei due canti del Purgatorio (XXIII-XXIV) dedicati ai golosi, i peccatori soffrono la fame e la sete, con l’aggravante punitiva di trovarsi di fronte a frutti e bevande che non possono raggiungere.
Fra questi golosi pentiti, e quindi in attesa di trasferirsi nel Paradiso, si trova papa Martino IV che “… purga per digiuno/l’anguille di Bolsena e la vernaccia”.
Tuttavia, nella Divina Commedia il cibo, e tutto quanto vi ruota intorno, assume una connotazione prevalentemente metafisica.
Il Poeta si serve di alcuni atti del cucinare per descrivere le modalità di somministrazione delle pene, come quando pone “in gelatina” i traditori dei congiunti (Inferno XXXII, 60).
La pena culinariamente più esemplare è quella inflitta ai lessi (Inferno XXI,135): questi peccatori sono immersi nella pece bollente e gli sguatteri agli ordini dei demoni si servono di “uncin”, “raffi” e “runcigli” per assicurarne la continua immersione nel liquido di cottura.
Chi sono questi peccatori? Sono i barattieri, cioè i dipendenti dei Comuni, che fecero mercato fraudolento dei beni pubblici loro affidati. L’allusione al cibo come metafora, questa volta virtuosa, è presente anche nel Paradiso, dove troviamo il “pan de li angeli”, la sapienza di cui si nutrono le schiere celesti, i beati e i santi, dove è lecita la golosità (di beatitudine) e il banchetto diviene, così, un premio per la rettitudine e la purezza dimostrate durante la vita terrena.
Sempre nella terza Cantica, Dante coglie l’occasione per tessere l’elogio della sobrietà che aveva caratterizzato la vita degli Apostoli e di San Pier Damiani: lo stesso che, quando la forchetta fece la prima, timida apparizione sui deschi, ne divenne acerrimo nemico, non esitando a definirla strumento di Satana.
La Commedia documenta anche la posizione del Poeta nei riguardi delle tre bevande per lui abituali nell’alimentazione: acqua, latte e vino. La prima è la bevanda ideale, indice di temperanza e morigeratezza, mentre il latte è il nutrimento essenzialmente riservato ai bambini.
Più complesso il discorso sul vino, la cui eccessiva assunzione provoca spiacevoli conseguenze; ma nel canto X del Paradiso la sete di vino diviene metafora della sete di verità (“… qual ti negasse il vin de la sua fiala/per la tua sete”) e più oltre (XII, 112-114) la buona conservazione del vino nelle botti a opera delle benefiche incrostazioni (prodotte da fraternità e unità) diviene la metafora per indicare che discordia e divisione portano alla formazione delle muffe e all’inevitabile imbevibilità del contenuto.
Anche l’opera del sommo Poeta contribuisce, quindi, a sottolineare l’importanza dell’alimentazione nella vita dell’uomo, come atto che valica i confini della pura necessità di sopravvivenza, e di fonte di piaceri, per divenire parte del patrimonio di tradizione e cultura di ogni tipo di società.
Claudia Treves
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