Sempre più a rischio i contratti a termine
La pandemia di Covid19 da un punto di vista economico non è stata pagata da tutti.
Le disuguaglianze nell’impatto dell’emergenza sono state enormi e hanno superato quelle presenti nella precedente crisi finanziaria.
A subirne maggiormente i rovesci sono stati coloro che già in precedenza si trovavano nelle condizioni più precarie e delicate.
Ovvero tra i lavoratori con contratti a termine o le partite Iva.
Siamo ormai arrivati a più di un anno di emergenza e anche chi si occupa di statistiche ufficiali come l’Istat può effettuare confronti annuali tra il periodo immediatamente precedente all’inizio della crisi e oggi.
Tra il febbraio 2020, l’ultimo quasi “normale” prima dell’arrivo del Covid e il febbraio 2021 si sono volatilizzati 945mila posti di lavoro, ossia il 4,1% dei 23,1 milioni di occupati del secondo mese del 2020.
Questi numeri sono anche l’esito di una diversa metodologia di calcolo decisa a livello europeo nelle ultime settimane che considera come non occupati i lavoratori in cassa integrazione da più di tre mesi, così come gli autonomi che non hanno svolto un’attività per un uguale lasso di tempo.
Ma nonostante questi cambiamenti che hanno l’ovvio effetto di aumentare il numero di dipendenti permanenti che hanno perso il lavoro, le vittime principali della recessione rimangono quelli con dei contratti a termine in Italia.
Basti pensare che sono372mila i posti in meno fra i dipendenti a tempo determinato, con un calo in un anno, tra febbraio 2020 e febbraio 2021, del 12,8%.
Mentre il calo di quelli permanenti è stato di 218mila unità, l’1,5%.
L’altra categoria più colpita, quella degli autonomi, ha visto una contrazione di 355mila occupati, il 6,8%.
Ora i contratti a termine in Italia sono 2 milioni e 532mila, nel febbraio dell’anno scorso erano 2 milioni e 904mila.
Il calo è stato all’inizio brusco.
Nel maggio del 2020 si erano persi, in soli tre mesi, quasi 300mila lavoratori, ma con la fine del primo lockdown in giugno vi era stato un recupero di più di 50mila lavoratori, che evidentemente avevano potuto rimettersi in gioco ed essere assunti grazie alla ripresa delle attività.
Nei mesi successivi il calo del numero degli occupati con contratti a termine è però proseguito, seppur più lentamente.
Ed è stato analogo a quello che coinvolgeva i contratti a tempo indeterminato e gli autonomi.
Ma il colpo dato dal lockdown della primavera del 2020 non è stato riassorbito.
I lavoratori precari sono rimasti i più colpiti a un anno di distanza.
E la cosa è a maggior ragione degna di nota perché questa modalità di lavoro, a termine, era quella che aveva visto la maggiore crescita negli anni precedenti.
Tra l’inizio del 2004 e la primavera del 2019 gli occupati a tempo determinato erano aumentati da un milione e 775 mila a 3 milioni e 124 mila.
Da realtà marginale che riguardava l’8% degli occupati totali quella del lavoro a termine era divenuta nel tempo protagonista.
Nella gran parte di questi 15 anni gran parte degli incrementi dell’occupazione sono stati dovuti quasi solo all’aumento dei contratti a termine in Italia.
E anche se pure i lavoratori precari hanno sofferto i rovesci del 2008-09 e del 2012-12 già dal 2015 il loro numero era maggiore di quello del 2008.
E da allora è stato un vero e proprio boom, fino al 2019.
Già dalla primavera del 2019, quindi ben prima dello scoppio della pandemia, si era verificata una prima diminuzione del numero di contratti a termine.
Dal picco di 3 milioni e 124 mila di aprile all’inizio dell’emergenza vi era stata una riduzione di più di 200 mila unità.
Un calo superiore a quello che si era visto tra i contratti permanenti. Perché?
Era l’effetto del rallentamento dell’economia che aveva portato il Pil a crescere in quell’anno solo del 0,3% e del Decreto Dignità che aveva incentivato le trasformazioni a tempo indeterminato.
E tuttavia la diminuzione del numero complessivo degli occupati mostra come la stagnazione economica fosse in realtà il fattore principale.
A godere di un passaggio da tempo indeterminato a tempo indeterminato erano stati coloro che lavoravano nei settori migliori, quelli in maggiore crescita.
Quelli che erano rimasti con dei contratti a termine erano invece stati gli occupati in segmenti più fragili, gli stessi che poi nella pandemia hanno subito la perdita del posto.
Giovani, donne, immigrati, italiani con bassa istruzione.
Ormai conosciamo l’identikit di chi ha sofferto di più. E soffre ancora.
Raimondo Adimaro
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