Stop ai paradisi fiscali? Forse, chissà
Sono le multinazionali i primi grandi evasori del pianeta, società che guadagnano cifre ad otto e nove zeri pagando zero tasse o quasi.
I paradisi fiscali non sono solo le Isole Cayman, le Isole Vergini Britanniche, le Mauritius, le Bermuda ma le troviamo anche nella Vecchia Europa.
Paradisi fiscali sono anche Olanda, Lussemburgo, Irlanda, Monaco e anche Svizzera.
Nel recente incontro fra i ministri della Finanza del G7 è stato raggiunto un accordo di massma per arginare un’evasione fiscale sempre più imponente
Un “accordo storico” lo hanno definito i sette ministri delle Finanze del Gruppo dei sette riuniti alla Lancaster House di Londra.
Anche se il quantum della tassa minima globale (minimum global – corporate – tax) è sceso via via con l’ultimo ribasso dal 21 al 15%.
E in effetti dopo anni di discussioni lungo le due sponde dell’Atlantico e guerre commerciali sull’orlo di scoppiare per le web tax nazionali europee dopo che negli anni di Donald Trump alla Casa Bianca, come in quelli di Barack Obama, gli Stati Uniti non avevano mai accettato che il G7 si chiedesse come tassare le Big Tech.
Ora Usa, Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone e Regno Unito hanno trovato la quadra “sul principio di una aliquota globale minima del 15% per la tassazione delle grandi imprese, applicata Paese per Paese”.
Accordo che mira a “riformare il sistema fiscale globale per adattarlo all’era digitale globale”.
L’annuncio è arrivato prima del comunicato ufficiale su Twitter da parte del ministro del Tesoro britannico Rishi Sunak, che ha parlato di “una stretta sull’elusione fiscale” che farà pagare “la giusta quota” alle multinazionali del web a stelle e strisce.
Secondo il Tesoro, “le maggiori imprese globali, con margini di profitto di almeno il 10%, vedranno il 20% di tutti gli utili al di sopra di tale soglia riallocato e tassato nei Paesi dove effettuano vendite”.
“Ci impegniamo – si legge nel comunicato finale – del G7 dei ministri finanziari a raggiungere una soluzione equa sull’assegnazione dei diritti di imposizione“.
“Provvederemo ad un adeguato coordinamento tra l’applicazione delle nuove norme fiscali internazionali e l’eliminazione di tutte le tasse sui servizi digitali, e altre pertinenti misure simili, su tutte le societa’”.
“Siamo a un millimetro da un accordo storico“, aveva preannunciato ieri al termine della prima giornata di lavori il ministro dell’Economia francese Bruno Le Maire.
Le condizioni per trovare la quadra fra le due diverse sponde dell’Atlantico si sono create con la pandemia, in cui le Big Tech, i loro manager e gli azionisti sono divenuti il simbolo di una diseguaglianza nella società ormai ritenuta intollerabile.
Negli Stati Uniti come in Europa.
E anche i governi dei Paesi più forti hanno iniziato a temere che i grandi gruppi tecnologici diventino così liquidi e potenti da mettere in discussione le prerogative degli Stati.
L’ultima offerta del presidente americano Joe Biden agli europei è una stata di un’aliquota del 15% sulle cento imprese con i maggiori utili, quale che sia la loro nazionalità.
Un’azienda dovrebbe pagare nel resto del mondo tasse almeno per il 15% dei profitti, se trasferisce questi ultimi in un paradiso fiscale che preleva di meno.
Nel mirino ci sono le pratiche elusive dei colossi del web come Google, Amazon e Microsoft in grado di sfuggire potenzialmente a qualunque aliquota attraverso il meccanismo della domiciliazione legale in luoghi diversi (paradisi fiscali) da quelli in cui intascano i loro profitti.
Fino ai casi clamorosi come le zero tasse versate in Irlanda dalla filiale locale di Microsoft su 315 miliardi di euro di profitto annuale, grazie alla domiciliazione nelle Bermuda.
Apple per esempio grazie a un accordo con Dublino paga lo 0,005% degli utili registrati in tutto il Vecchio Continente.
Riccardo Dinoves
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