La debolezza degli US ieri in Vietnam oggi in Afghanistan
Sulla Casa Bianca aleggia il fantasma del Vietnam,
Joe Biden ora “vede” le immagini della caduta di Saigon, anno 1975.
Qualche settimana fa disse: “Non ci sarà nessuna circostanza in cui vedrete persone sollevate dal tetto dell’ambasciata degli Stati Uniti in Afghanistan”.
Sta succedendo il contrario.
La fuga dalla “lunga guerra” in Afghanistan, diventa un segno indelebile sulla sua biografia perché ora è visibile a tutti quanto sia grave la ritirata americana, un tragico errore.
La campagna in Vietnam fu un altro tragico errore.
Lo commise un altro presidente democratico, John Fitzgerald Kennedy.
La decisione di JFK di inviare le truppe nella giungla fu un caso da manuale di non-governo e la campagna militare americana allora fu conclusa da un repubblicano, il presidente Gerald Ford (entrò in carica nel 1974, dopo le dimissioni di Nixon a causa dello scandalo Watergate) che dopo gli accordi di Parigi siglati nel 1973 (il regista fu Henry Kissinger) ordinò tutti a casa nel Vietnam del Sud, invaso due anni dopo dalle truppe del Vietnam del Nord.
Immagini già viste e riviste, l’evacuazione del personale diplomatico, la fuga delle figure chiave del governo che non c’è, lo Stato di cartapesta che si sbriciola, il trasferimento, prima che sia troppo tardi, dei collaboratori locali che rischiano la vita, l’accusa di “intelligenza con il nemico”.
Negli archivi della storia americana sono custoditi tutti i passaggi del presente, basta leggere uno tra i tanti documenti declassificati sulla caduta di Saigon.
I problemi drammatici che affrontarono gli americani il 29 aprile del 1975 sono gli stessi che si discutono in queste ore con il cuore in gola alla Casa Bianca.
Dietro un’apparente freddezza, c’è una caotica valanga di eventi imprevisti. Biden con i suoi ministri ha scelto il ritiro nella data sbagliata – la stagione dei combattimenti – ora gli americani (e gli alleati, noi italiani compresi) devono fare tutto ancora più rapidamente, perché l’avanzata talebana è stata senza ostacoli, un coltello nel burro di uno Stato afghano che non c’era.
Ecco dunque il tema della sicurezza dell’operazione, la necessità di tenere l’aeroporto di Kabul al riparo dai colpi dell’artiglieria dei Talebani, i problemi logistici per il trasferimento del personale e dei cittadini afghani che devono essere tratti in salvo.
La disponibilità di vie d’accesso e fuga in caso la situazione non sia più “coperta”, disporre di luoghi per accogliere migliaia di persone sul suolo americano, telefonare e stringere accordi con gli alleati per la distribuzione degli afghani, gestire la comunicazione sul posto.
Coordinare gli interventi di varie nazioni, mantenere la calma al Congresso, non dare mai l’impressione di essere in difficoltà all’esterno, mettere in piedi un’operazione di comunicazione di crisi internazionale, soprattutto non trasmettere l’immagine di una sconfitta.
Un altro Vietnam raddoppiato.
“Non è Saigon”, dice Anthony Blinken ora alla Cnn.
Il segretario di Stato ha ragione, non è Saigon.
È Kabul dopo vent’anni di occupazione americana.
Con l’auspicio che Kabul non sia peggiore di Saigon.
Raimondo Adimaro
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