A cinque anni dal terremoto di Amatrice si è fatto poco
Sono trascorsi cinque anni da quel 24 agosto 2016, quando una parte significativa del centro Italia venne squassato dal terremoto che distrusse Amatrice, numerosi paesi del reatino e buona parte della zona intorno al fiume Tronto, gettando migliaia e migliaia di persone nella disperazione.
Un terremoto che fece seguito a quello di sette anni prima, la tragedia che sconvolse L’Aquila in un’altra notte indimenticabile.
Accadde più o meno alla stessa ora, le 3,30, quando la maggior parte delle persone dorme e il dramma si trasforma in mattanza, cogliendo nel sonno anche coloro che magari, di giorno, si sarebbero potuti mettere in salvo.
Uno strazio e un dolore senza fine, la ricostruzione che ancora non è stata completata, la vita che è cambiata per sempre, lo stravolgimento delle abitudini, la solitudine, le promesse della politica e il consueto armamentario retorico di una classe dirigente che spesso, in queste circostanze, dà il peggio di sé: questo è stato il terremoto del 2016, al pari dei precedenti, in un’Italia meravigliosa ma dannatamente fragile.
Ricordiamo le vittime, ci stringiamo ai loro familiari, cerchiamo di andare avanti e di non essere stucchevoli, di rendere omaggio senza ferire ulteriormente, di non usare troppe parole, che in questi casi possono diventare pietre, e di assumerci l’impegno di porre finalmente in sicurezza un territorio che sarà sempre sottoposto a fenomeni sismici, facendo sì che le costruzioni seguano rigorosi criteri anti-sismici come avviene da decenni in Giappone.
Incredulità e sgomento sono i sentimenti che ci pervadono ripensando a quei giorni.
Come ai tempi del Belice, del Friuli, dell’Irpinia, dell’Umbria e in tutte le altre circostanze in cui la natura prende il sopravvento sulle nostre certezze.
Troppe vite spezzate, troppa sofferenza, un tormento che è sempre impossibile da raccontare, eppure abbiamo il dovere di continuare a farlo.
Piero Vernigo
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