Sale al 42,5% la pressione fiscale in Italia
L’Italia è tra i Paesi in cui si pagano più tasse. Se ne lamentano da tempo sia lavoratori che aziende, e le proposte di riforma fiscale come quelle contenute nella delega da poco varata dal Governo Draghi immancabilmente scatenano polemiche anche per i timori di inasprimento almeno di una parte delle imposte, quelle sugli immobili in questo caso.
I dati dell’Ocse lo confermano, la pressione fiscale è nel nostro Paese del 42,5%.
Solo in quattro Paesi è maggiore, in Danimarca, dove è del 46,3%, in Francia, in cui è del 45,4%, in Belgio e Svezia, dove si arriva al 42,9%.
Il confronto più rappresentativo è però con quella media dei Paesi Ocse, ovvero quelli più avanzati al mondo, che è del 33,8%, molto più bassa. Media evidentemente abbassata dagli Usa, dove è solo del 24,5%.
Appare chiaro come anche considerando solo gli Stati più ricchi, è in Europa che la pressione fiscale appare più alta.
Oltre che negli Usa è inferiore a quella italiana o francese anche in Giappone, dove è del 32%, e così in Israele, dove scende al 30,5%.
Sono questi dati del 2019, nel 2020 a causa della recessione provocata dal Covid un po’ in tutto il mondo questi valori sono apparsi in salita, perché è diminuito il denominatore, il Pil.
Quella che conosciamo come pressione fiscale è un rapporto tra il valore del gettito generato delle imposte e il Prodotto Interno lordo. Viene modificato sia dall’andamento del primo che del secondo.
Può diminuire sia se un governo decide il varo di riforme che taglino le tasse, sia se il Pil, ovvero la ricchezza del Paese, aumenta.
E viceversa può crescere se vi è un incremento della tassazione o anche se si cade in una recessione e quindi il Pil diminuisce.
Quest’ultimo è proprio il caso del 2020, o anche di altri momenti di crisi, come quelli seguiti a Lehman Brothers.
Mentre se l’economia cresce bene tale rapporto appare più piccolo, e anzi si innesta spesso un circolo virtuoso per cui la maggiore prosperità consente anche di tagliare le imposte e quindi diminuire ulteriormente la pressione fiscale quindi anche dal versante del numeratore.
C’è in realtà anche un altro modo per cui questa può scendere o salire, ed ha a che fare con il fenomeno dell’evasione.
Se per motivi più disparati questa diminuisce e riesce ad emergere il settore sommerso si otterrà un gettito maggiore e quindi una pressione fiscale più alta anche senza che le aliquote fiscali siano state cambiate.
Ed è quello che probabilmente è accaduto nel caso del nostro Paese, dove nel 2019 tale pressione è cresciuta rispetto all’anno precedente e a quella di due anni prima.
Nel nostro Paese il peso del fisco è cresciuto nel tempo, nel 1990 era del 36,3% sul Pil, ed è arrivato al 40,5% nel 1993, in occasione della recessione che colpì l’Italia in seguito alla crisi della lira, che nel settembre 1992 era stata svalutata e aveva abbandonato lo Sme.
Dopo essere tornata sotto la soglia del 40% per due anni, nel 1994 e 1995, vi fu un incremento dovuto anche all’imposizione di una maggiore tassazione per poter abbattere il deficit e entrare nell’euro.
La pressione fiscale riuscirà a scendere a livelli tra il 39% e il 40% solo in poche altre occasioni, nel 1998, nel 2002, nel 2004 e 2005 per essere poi dal 2006 in poi sempre superiore al 40%, arrivando nel 2013 al record del 43,8%.
Principalmente a causa della recessione collegata alla crisi dello spread, a una maggiore lotta all’evasione, all’aumento delle tasse sulla casa.
Con la ripresa e alcuni sgravi fiscali (come la decontribuzione sui nuovi assunti o il taglio dell’Irap) la pressione fiscale è di nuovo scesa tra il 2014 e il 2018, arrivando al 41,9%, per poi risalire nel 2019.
E per il futuro? Secondo l’ultima Nota di Aggiornamento al Def nel 2021, dopo avere toccato il 42,8% del 2020, vi sarà una riduzione che la porterà al 41,9%, al 42% nel 2022, al 41,7% nel 2023, e al 41,5% nel 2024.
La diminuzione così lieve, nonostante un aumento del Pil piuttosto buono, in realtà è dovuta al fatto che si prevede un recupero dell’evasione che incrementerà il gettito quasi della stessa entità con cui crescerà l’economia.
Lo stesso sommerso in realtà è un elemento che agisce sul calcolo della pressione fiscale anche in altro modo. Nelle stime di Eurostat e Ocse viene inserita anche una stima dell’economia “grigia” per determinare l’ammontare più credibile del Pil, quello su cui poi si misureranno molte grandezze, dal debito al peso del fisco, appunto.
Il Prodotto Interno Lordo così viene rivisto al rialzo in modo spesso considerevole, soprattutto nel caso di quei Paesi in cui l’evasione ha sempre avuto un ruolo fondamentale, come l’Italia. Se non vi fosse questa rivalutazione “a tavolino” la pressione fiscale italiana sarebbe molto più importante, e arriverebbe al 48,2% secondo i calcoli della Federazione Nazionale dei Commercialisti, ovvero al primo posto in Europa.
L’economia non osservata però non si può ignorare, e se non possiamo avere numeri precisi la soluzione non può essere fare finta che non esistano.
Vi è un altro fattore che incide sul calcolo del peso delle imposte nel nostro Paese, ed è piuttosto recente. Si tratta del bonus degli 80 euro, divenuto di 100 euro quest’anno.
La Commissione Europea fin dalla sua introduzione ai tempi del governo Renzi nel 2014 lo considera non come uno sgravio, ma come spesa pubblica, non andando quindi a diminuire la pressione fiscale come nelle intenzioni dell’esecutivo.
Da allora nei documenti governativi ufficiali vi è quindi una doppia stima: la pressione fiscale ufficiale, quella accettata anche a livello europeo, e quella al netto della misura dei 100 euro.
Considerando quest’ultima il gettito complessivo sul Pil diminuisce dal 42,8% al 42,1% per il 2020. E anche per il 2021 passa dal 41,9% al 41,2%.
Tra i nostri vicini più significativi troviamo soprattutto Paesi in cui il peso del fisco è inferiore. La pressione fiscale della Germania, per esempio, era, secondo i dati Ocse del 2019, del 38,8%, in aumento nel corso degli anni.
Si è trattato però di un incremento particolarmente lieve considerando che nel 1990 era del 34,8%, nel 2004 del 34,3%, ed è oscillata tra tali valori e quelli attuali negli ultimi tre decenni.
Anche in Spagna il gettito rispetto al Pil è su livelli molto più bassi che in Italia. Del 34,7% nel 2019, ma in passato, nel 2007, era arrivato al 36,4%.
La pressione fiscale della Svizzera è ancora minore, del 28,5% due anni fa, non è mai cresciuta a livelli superiori a questo, ed anzi era inferiore al 24% nei primi anni ’90.
Al contrario i francesi sono tra i pochi a pagare più tasse degli italiani. Il rapporto tra entrate e Pil era nel loro caso del 45,4% nel 2019, in leggero calo rispetto al 46,1% del 2017, massimo mai raggiunto, ma in aumento rispetto ai livelli dei primi anni ’90, in ogni caso superiori al 40%.
Nel novero ridotto di Paesi in cui la pressione fiscale è invece diminuita negli ultimi decenni vi sono, in Europa, due realtà molto diverse, la Svezia e l’Irlanda.
Nel primo caso si tratta di uno dei simboli a livello mondiale di interventismo statale, e a fine millennio il peso del fisco sull’economia aveva raggiunto il 48,8%, ma attraverso lo stimolo della gestione privata in alcuni settori (per esempio l’istruzione) e i tagli effettuati soprattutto alle imposte sulle aziende è riuscito a ridurre la pressione fiscale al 42,9% nel 2019, un livello di poco superiore a quello italiano.
L’Irlanda invece non ha mai avuto tasse particolarmente alte, non è mai andata oltre un 34,7% di gettito sul Pil.
Ma nell’ultimo decennio grazie alla grande espansione dell’economia e alla concessione di aliquote di favore per le imprese che a Dublino e dintorni si stabilivano la pressione fiscale irlandese è scesa fino al 22,7% del 2019.
Non a caso è sul banco di accusa come paradiso fiscale di fatto.
E tuttavia è difficile che il modello scelto dagli irlandesi cambierà nei prossimi anni.
Saranno gli altri Paesi piuttosto a cercare di diminuire le proprie aliquote per diventare più attraenti per le multinazionali.
I dati si riferiscono al 1990-2021 Fonte: Ocse, Nadef
Arnaud Daniels
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