Tasse al 43%, in 15 anni aumentate di 4 punti
Dal 39% del 2005 al 42,9% del 2021: in 15 anni la pressione fiscale in Italia, misurata col rapporto tra le entrate complessive nelle casse dello Stato e il pil, ha compiuto una corsa al rialzo senza precedenti, con una crescita di quasi quattro punti in più.
Il nostro Paese resta in cima alla classifica per il maggior carico di tasse, ma continua a essere uno di quelli in cui le prestazioni pubbliche offerte a cittadini e imprese (in termini di welfare e di servizi) è tra i meno generosi.
Nel ranking dei paesi più tassatori, prima dell’Italia c’è la Danimarca col 46,5%, la Francia col 45,4% e il Belgio col 43,1%, ma in quelle tre nazioni lo Stato è senza dubbio più avanzato del nostro in termini di assistenza e servizi.
È quanto emerge da un’analisi del Centro studi di Unimpresa, secondo la quale in Italia si pagano più tasse anche di paesi dove i servizi pubblici e il welfare sono di alto livello come Svezia (42,6%), Austria (42,1%) e Finlandia (41,9%).
Questa è la situazione drammatica con la quale facciamo i conti mentre si discute di riforma fiscale. Il problema è che in Italia lo Stato prende molto in termini di tasse, ma restituisce pochissimo in termini di servizi e welfare.
Questo vale tanto per i lavoratori, tanto per le aziende.
Rispetto a quello di cui ci sarebbe realmente bisogno, 8 miliardi complessivi, quelli offerti dal governo per ridurre le tasse, sono troppo pochi.
Il governo si è trovato costretto a distribuire queste risorse tra imprese, con un lieve taglio dell’Irap, e lavoratori, con un po’ meno Irpef.
Il risultato, però, è che nessuno è soddisfatto al 100%: tutti si lamentano. L’esecutivo, insomma, ha scontentato tutti.
Quanto allo sciopero indetto dalla Cgil e dalla Uil per il 16 dicembre è stato deciso in un momento difficile per il Paese, serve coesione e unità di intenti.
In ogni caso, le nuove aliquote Irpef, ipotizzate nella riforma dal governo, danno maggiori benefici ai redditi più alti di 35.000 euro e quindi servirebbe una riflessione, per andare incontro a chi guadagna meno: vanno ridefinite le priorità e va cercata l’equità.
In questa contrapposizione qualcuno può pensare che ci siano delle sproporzioni tra la materia del contendere e la forma di mobilitazione, ma in ogni caso il governo non deve ignorare le ragioni di sofferenza.
È un fatto che questi due anni di pandemia abbiano aggravato e fatto crescere gli squilibri sociali e ampliato le disuguaglianze economiche.
Le nuove aliquote fiscali assicurano piccoli vantaggi, ma non riducono le difficoltà di chi ha sofferto di più durante la crisi.
L’altra grande sfida, sul fronte tasse, è la semplificazione. È una corsa ad ostacoli scrivere una dichiarazione dei redditi, spiegare come si calcola l’Imu oppure come funziona esattamente la tassa sui rifiuti.
Ci sono troppe norme, troppe leggi che nel corso degli ultimi decenni si sono sovrapposte e alla fine ci troviamo con un quadro di regole incomprensibili. Questo porta a una valanga di errori.
Non è un caso che alla Corte di Cassazione, la maggior parte dei ricorsi siano di natura fiscale.
Avere meno leggi e soprattutto più chiare sarebbe un grande risultato. È un tema che lo stesso premier Draghi conosce a fondo perché una delle ragioni che tiene lontano gli investimenti internazionali dal nostro Paese.
Di fronte a un vero e proprio caos normativo, gli stranieri non investono e si tengono lontano dall’Italia.
Anselmo Faidit
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