30 anni dalla caduta del blocco rosso sovietico
La “perestrojka”, lanciata da Mikhail Gorbaciov nel 1985 – un programma di riforma volto a liberare l’economia all’interno del regime comunista, e la “glasnost” (apertura di archivi storici, pubblicazione di libri sino ad allora vietati, diminuzione della censura) – hanno rivitalizzato la superpotenza, visibilmente in declino, dell’allora URSS.
Tuttavia, attanagliata da decenni di corsa agli armamenti e cattiva gestione, l’economia, mostrava drastici segni di usura.
Inoltre, l’unità delle 15 Repubbliche sovietiche, lodata dalla propaganda comunista, si stava sciogliendo come neve al sole.
La regione del Caucaso si ribellò a Mosca, seguirono poi i Paesi baltici e la Lituania dichiarò la propria indipendenza.
Tutto questo rappresentava una minaccia troppo grande per l’URSS: nel gennaio 1991, Mosca intervenne con la forza, sparando sui manifestanti.
Questo tentativo di domare l’insurrezione fallì e la Lituania divenne la prima Repubblica a staccarsi ufficialmente dall’URSS e ripristinare l’indipendenza.
La mazzata veramente fatale per il Paese fu però il colpo di Stato, datato 19 agosto 1991, allorché il popolo sovietico si svegliò con la tv che trasmetteva ‘Il lago dei cigni’ dal teatro Bolshoi, prologo dell’annuncio solenne al notiziario, in cui si dichiarava che Gorbaciov non era in grado di governare per motivi di salute.
Nacque così il comitato di Stato, creato per salvare il Paese da “caos e anarchia”, almeno secondo i proclami.
In contemporanea agli annunci, colonne di carri armati entrarono a Mosca, le riunioni pubbliche furono vietate e i giornali pro-riforma chiusi, in una città in cui i cambiamenti di Gorbaciov avevano portato ad una vera effervescenza politica.
Anche se il colpo di Stato si esaurì in soli due giorni, si ritiene che abbia aperto la strada ad eventi che avrebbero posto fine all’esistenza dell’Unione Sovietica.
Il fallimento del colpo di Stato dell’agosto 1991, quando gli estremisti e le élite militari cercarono di rovesciare Gorbaciov e fermare le riforme, indusse il governo di Mosca a perdere la maggior parte della sua influenza.
Boris Eltsin, primo presidente democraticamente eletto nell’URSS ma decisivo per la sua caduta e la nascita della Federazione russa, uscì vittorioso e Gorbaciov, di ritorno da un forzato esilio, sembrava più debole che mai.
La secessione degli Stati baltici è stata riconosciuta nel settembre 1991.
Gli accordi di Belovezha furono arbitrariamente sottoscritti l’8 dicembre da Eltsin, dal presidente ucraino Kravchuk e da quello bielorusso Shushkevich, riconoscendo l’indipendenza reciproca e creando la Comunità degli Stati indipendenti (CSI).
Il Kazakistan fu l’ultima Nazione a lasciare l’Unione, proclamando l’indipendenza il 16 dicembre: tutte le Repubbliche, ad eccezione della Georgia e dei Paesi baltici, hanno aderirono alla CSI il 21 dicembre, firmando la dichiarazione di Alma-Ata.
Il 25 dicembre, Gorbaciov si dimise e consegnò i suoi poteri presidenziali, compreso il controllo dei codici di lancio nucleare, a Eltsin, che fu presidente della Federazione russa sino al 1999.
Quella sera, alle 19:32, lo stendardo rosso sovietico fu abbassato dal Cremlino per l’ultima volta e sostituito con la bandiera tricolore russa.
Il giorno seguente, la Camera alta del Soviet Supremo riconobbe l’autonomia di governo delle ex Repubbliche sovietiche, sciogliendo formalmente l’Unione.
Arnaud Daniels
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