Le difficoltà delle PMI nel ricambio generazionale
Le Pmi italiane, che rappresentano il 98% delle aziende nazionali, e spesso le eccellenze produttive del Paese, denotano problemi, oltre che storici, come quello del capitale – oltre l’80% è sottocapitalizzata -, e quello dimensionale – il 96% ha meno di dieci dipendenti -, la difficoltà del cambio generazionale, tema sempre più di attualità se si pensa che il 70% delle Pmi vede ancora alla propria guida la prima generazione.
Così le complicazioni legate alla consegna del testimone a uno o più familiari si traduce nella risoluzione di vendere nel 54% dei casi e nel 16% di liquidare l’impresa. Lo sostiene uno studio della Livolsi & Partners, realizzato su un campione rappresentativo di una quarantina di società-clienti con fatturato dai dieci ai 900 mln/anno.
Nel dettaglio dell’analisi il 54% delle aziende ha preso atto dell’impossibilità di finalizzare il passaggio generazionale e ha assunto la decisione ritenuta “la più saggia ma anche la più difficile di vendere la società”, con la conseguenza di aver dovuto organizzare e gestire le operazioni di M&A (Merger & Acquisition – fusioni e acquisizioni) per poter realizzare il maggior valore per i soci.
Il 23% del campione ha trovato nella quotazione in Borsa, o nel progetto di quotarsi, la risoluzione del nodo.
Rientrano in particolare in questa categoria organizzazioni con un fatturato importante (superiore a cento milioni di euro) e dove operano già manager con grande professionalità ed esterni alla famiglia.
Per il 16% delle imprese interpellate, il tentativo della consegna del testimone ha avuto esito negativo con conseguenze “conflittuali”, il che ha portato o alla loro liquidazione per mancanza di accordi sulla visione futura della conduzione aziendale, oppure alla divisione a seguito delle diverse strategie di business auspicate e dell’incompatibilità caratteriali tra gli eredi e i successori.
L’8% soltanto dichiara che il superamento del problema ha conseguito un risultato positivo e senza conflitti, con la seconda generazione che ha acquisito posizioni e responsabilità ben definite all’interno della società.
Lo studio della Livolsi & Partners rimanda alla tendenza evidenziata da altre ricerche.
Secondo un recente studio di KPMG, che si sofferma su aziende di grandi dimensioni, nel 2021 sono state perfezionate quasi 1.100 operazioni di M&A per un controvalore di circa 96 miliardi di euro.
In tale contesto un ruolo fondamentale è giocato dai fondi di Private Equity: a parere di AIFI, l’associazione italiana del Private Equity, Venture Capital e Private Debt, nel primo semestre del 2021 sono state perfezionate 253 operazioni di cui il 72% con imprese sotto i 50 milioni di euro di fatturato.
La vicenda Amadori fa riflettere: ci sono casi di successo di passaggio generazionale con presenza in aziende a struttura familiare di seconde, terze e quarte generazioni, altri eclatanti di dinastie imprenditoriali finite.
Scriveva Carlo Collodi: “Godersi in pace una ricca eredità, passata di padre in figlio, è sempre una bella cosa: ma per i giovani, l’industria, l’abilità e la svegliatezza d’ingegno valgono più d’ogni altra fortuna ereditata”.
È difficile saper giudicare i propri figli o nipoti e introdurre al momento adatto manager esterni.
Diverse le cause: mancanza di eredi, eredi che scelgono altri percorsi, figli e nipoti senza competenze e professionalità per proseguire l’attività dei padri.
Dalle ricerche effettuate, a parte un solo caso di azienda con quasi cento anni di storia, tutte le altre sono al primo passaggio generazionale, significa che gli attuali imprenditori sono stati fondatori della società e ora hanno deciso di venderla.
Che cosa fare?
È necessario trovare la soluzione adeguata alle esigenze degli imprenditori, cercando di individuare degli interlocutori, fondi di private equity od organizzazioni industriali, che sappiano riconoscere il giusto valore economico delle aziende anche in termini di competenze umane presenti nelle medesime.
Impresa per nulla semplice e facile.
Raimondo Adimaro
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