La grande fuga dei capitali occidentali da Mosca
Con il Cremlino ormai in piena zona default, l’ultima mossa disperata di Mosca è la nazionalizzazione forzosa delle aziende che decidono di abbandonare il Paese, proprio mentre Putin ribadisce la sua apertura al mondo finanziario.
Ma tra gli oligarchi monta la rabbia e c’è chi vede lo spettro della Rivoluzione d’ottobre
A qualcuno saranno riapparsi, nella mente, i fantasmi di Iosif Stalin, Lev Trockij o persino Lenin. Magari all’oligarga Vladimir Potanin, uno degli uomini più potenti di Russia, magnate dei metalli grazie al ruolo di azionista di riferimento di Norilsk Nickel, leader globale nella fornitura di palladio e, per l’appunto, nickel.
Per gli oligarchi, che proprio grazie a Vladimir Putin si sono arricchiti, facendo man bassa dei beni una volta di proprietà esclusiva dello Stato e dunque del popolo, sono tempi bui, come dimostra peraltro il crescente malumore verso il capo del Cremlino e la sua decisione di invadere e annientare l’Ucraina.
La Russia è a un passo dal default, stritolata dalle sanzioni dell’Occidente che ne stanno demolendo l’economia, un pezzo alla volta.
Il rublo è crollato e vale poco o niente, le esportazioni di gas sono a rischio, mettendo nelle condizioni Mosca di non poter finanziare il proprio debito o molto più banalmente pagare gli stipendi.
E poi è cominciata la tanto temuta fuga dei capitali, con decine di aziende che a stretto giro dalla prima cannonata hanno deciso di abbandonare la Russia, contribuendo al suo dissanguamento.
In tutto ciò la Cina, fedele alleata di Mosca, continua a nicchiare, non esponendosi più di troppo.
La reazione del Cremlino a tutto questo è risultata rabbiosa e violenta, come dimostra il fatto di aver preso in considerazione la nazionalizzazione coatta delle imprese che mollano gli ormeggi e saluta anzitempo Mosca.
Tra tutti, vale l’esempio di McDonald’s. In altre parole, chi se ne va rischia di diventare proprietà del Cremlino.
Potanin c’è andato giù pesante con Putin, avvertendo che la situazione nel suo Paese sarà la stessa di prima della rivoluzione bolscevica, nel 1917, proprio a causa dei piani per confiscare i beni di società straniere in Russia che decidono di smobilitare.
Il primo ministro russo Mikhail Mishustin ha proposto al presidente Putin di porre sotto gestione russa le società che hanno chiuso le loro attività nel Paese.
Per Potanin una mossa simile “ci riporterebbe indietro di 100 anni al 1917 e le conseguenze – una mancanza globale di fiducia degli investitori in Russia – si sentirebbero per molti decenni”.
E davvero poco sembrano rassicurare le parole dello stesso Putin, secondo il quale la Russia rimane aperta a fare affari con investitori stranieri e non ha intenzione di chiudersi da coloro che credono nell’economia russa.
Sono decine gli addii di queste ore. L’ultimo, forse il più pesante, è quello di Goldman Sachs.
La maggiore tra le banche d’affari americane è in procinto di chiudere le proprie operazioni, diventando la prima grande istituzione di Wall Street ad abbandonare il paese guidato da Putin dopo l’invasione dell’Ucraina.
La banca d’affari “sta chiudendo la propria attività in Russia in conformità con i requisiti normativi e di licenza – ha affermato una portavoce – Ci concentriamo sul supportare i nostri clienti in tutto il mondo nella gestione o nell’estinzione degli obblighi preesistenti nel mercato e nel garantire il benessere delle nostre persone”.
Il colosso ha circa 80 dipendenti in Russia e sta organizzando le partenze di coloro che hanno chiesto di andarsene.
Il fondo americano Blackrock ha invece interrotto ogni attività in Russia il 28 febbraio, e oggi ha rivelato di aver registrato una perdita da oltre 17 miliardi di dollari sugli investimenti nel Paese.
Al momento restano in portafoglio asset per solo 1 miliardo, dai 18 di inizio anno.
Salvarico Malleone
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