Il disastro postpandemia nella sanità pubblica
I numeri sono eloquenti. E quelli della pandemia sommersa, dei malati e delle prestazioni lasciate indietro dalla urgenza pandemica, parlano di una frattura tra servizio sanitario e consenso dei cittadini.
Le prestazioni sanitarie non effettuate nel periodo della emergenza pandemica si contano in milioni di visite specialistiche, accertamenti diagnostici, ricoveri, interventi chirurgici, procedure di screening per tumori, con decine di migliaia di mancate diagnosi.
Una montagna di richieste inevase ha portato le liste di attesa a misurarsi in semestri, con una incidenza non trascurabile su qualità e durata della vita dei cittadini.
E non basteranno certo le risorse economiche stanziate, e nemmeno spese dalle regioni, per incentivare medici ed infermieri a lavorare oltre il debito contrattuale, anche perché non può essere considerata attrattiva una retribuzione oraria cresciuta di ben 20 euro su quella ordinaria per lavorare magari di notte e nel week end, lordi ovviamente, come se lo Stato non riprendesse dai medici con la mano destra, prima ancora che venga incassata, la metà di quello che paga con la sinistra.
Nemmeno a pensarci di concedere ai medici pubblici ciò che è stato concesso agli insegnanti pubblici ed a tutti i lavoratori privati, a spese delle tasse di tutti, cioè la fiscalità di vantaggio per questa parte del salario.
I cittadini sono costretti a tagliare le attese rivolgendosi al privato, quando non vi sono indirizzati dalle stesse regioni, mentre continua la fuga dei medici pubblici, i più giovani all’estero, dove trovano gratificazioni economiche e professionali, i meno giovani nelle braccia di un privato che sulle macerie della pandemia va riorganizzandosi.
Ovviamente su linee produttive ad alta remuneratività, lasciando al pubblico tutto il peso della emergenza e della urgenza e rarefacendo la attività di elezione, specie chirurgica.
La crisi della sanità pubblica ha un nodo politico che governo e regioni si ostinano a non vedere: la frustrazione e la insoddisfazione del personale del SSN, medico soprattutto, numericamente carente, demotivato, stressato ed oberato di attività già in tempi normali, cui la emergenza pandemica ha dato solo il colpo di grazia amplificando oltre ogni misura il disagio lavorativo.
Questa questione strutturale non va confusa con quella delle infrastrutture da preparare con i soldi del PNRR.
La fuga dei medici con l’esodo annunciato di 40.000 medici ospedalieri e di 12.000 medici di medicina generale mette a rischio la stessa sostenibilità del sistema sanitario, già avviato lungo la china di una privatizzazione non più strisciante.
Una fuga senza precedenti, da regioni con storie, organizzazioni e realtà sanitarie completamente diverse. Ma unite da un comune sentire: i medici non vogliono più lavorare in ospedale e se ne vanno.
I turni di servizio per i singoli operatori sono in netto incremento numerico negli ospedali italiani, con weekend quasi tutti occupati da guardie e reperibilità, difficoltà perfino nel godere delle ferie maturate, straordinari non retribuiti.
Un lavoro diventato non solo sempre più gravoso ma anche più rischioso per le aggressioni, sia verbali che fisiche, e le denunce in sede legale. La crisi strutturale del pronto soccorso è solo la punta dell’iceberg di un sistema sull’orlo di una crisi, e non solo di nervi.
Il bollettino quotidiano racconta una sanità da tempo di guerra. Dal Veneto al Molise, dal Friuli all’Abruzzo, passando per Toscana, Piemonte e Liguria. È tutto un risuonare di fanfare che chiamano i medici alle corsie, vuote come le culle del nostro Paese.
Medici pensionati richiamati ad una nuova fonte di giovinezza, medici presi in affitto come un bilocale, medici neo-laureati inseriti in prima linea ad alimentare il precariato, medici giovani che continuano a fuggire all’estero dopo che i contribuenti italiani hanno pagato fior di tasse per la loro formazione.
Un caos frutto della organizzazione creativa delle regioni, nel tentativo affannoso di nascondere il fallimento politico nella tutela della salute dei loro cittadini, condiviso con tutti i Governi del passato, ed evitare la affissione sulla porta degli ospedali del cartello “chiuso per ferie”.
Il Sistema Sanitario Nazionale sta precipitando nel baratro dell’incapienza, di posti letto, di medici, di infermieri, di spazi fisici, di risorse economiche.
Siamo ai margini dell’Europa come numero di posti letto per mille abitanti, palesemente insufficiente per una popolazione in piena transizione demografica come quella italiana, sotto la media UE per le risorse destinate alla Sanità visto che il rapporto con il PIL è destinato a scendere, nel 2025, al di sotto dei valori prepandemici.
E il Sud è al di sotto dello standard nazionale. Avere pensato di riorganizzare ed “efficientare” il sistema sanitario attraverso tagli lineari su posti letto e dotazioni organiche rappresenta una sciocchezza prima di essere un errore.
Ridurre l’offerta pensando che la domanda si adeguasse automaticamente è stato un cinico azzardo, che ha avviato la sanità ospedaliera ad un certo e rapido peggioramento. Ma non esiste sanità senza ospedali.
E non esistono ospedali senza medici. Senza medici restano solo i miracoli, a dispetto delle non-soluzioni messe in campo, con l’aria di chi descrive verità scientifiche, dai corifei dell’aziendalismo e dai cultori della tecnocrazia.
Il futuro del SSN, che la crisi economica prima e la pandemia poi hanno messo in ginocchio, mentre la frammentazione ed il malgoverno regionale lo amputano di pezzi di universalismo, non dipende solo dal finanziamento, che pure non segna ancora la inversione di rotta annunciata, ma da modelli di governance innovativi e ritrovati equilibri istituzionali, capaci di superare un modello di sanità a pezzi per garantire una esigibilità del diritto alla salute omogenea in tutto il paese.
E dalla inversione della scala dei valori che oggi vede la salute agli ultimi posti nelle strategie politiche, dal ruolo e dalle correlate responsabilità da assegnare ai medici, la cui crisi di identità professionale fa da sfondo, con-causa ed effetto, della crisi della sanità pubblica che si accartoccia su se stessa.
Per dirlo con parole del ministro Roberto Speranza “….. dobbiamo ripartire da chi questo sistema lo ha fatto diventare grande: i professionisti che lavorano in corsia, negli ambulatori periferici, nei laboratori, nelle guardie dimenticate da tutti, nei pronto soccorsi affollati”.
Al centro deve tornare il diritto alla salute dei cittadini, il lavoro come diritto a difesa di altri diritti, il valore intrinseco del sapere e del saper fare.
Chiunque voglia rilanciare la sanità pubblica per invertire le curve di caduta della qualità e del consenso sociale a garanzia di un servizio sanitario universalistico, equo, efficace e solidale, deve recuperare la scissione in atto tra lavoro, competenze e diritti, attraverso un sostanziale cambio di paradigma culturale, politico e organizzativo.
Non solo moneta, non solo cemento e tecnologia, ma il valore del lavoro e delle competenze sono fondamentali per lo sviluppo di un sistema complesso come quello sanitario. Dove il capitale umano conta quanto e più di quello economico.
Sono i medici, le loro competenze e conoscenze, che fanno la differenza tra la vita e la morte, tra malattia e salute.
Non capirlo significa continuare a seminare vento. Per raccogliere poi tempesta.
Costantino Troise presidente dell’Anaao Assomed (sindacato dei medici italiani)
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