L’economia italiana si poggia sui piccoli comuni
I piccoli comuni sono il motore dell’economia produttiva italiana.
Nelle amministrazioni con meno di 20 mila abitanti, infatti, è ubicato il 41% sia delle imprese italiane sia del totale dei lavoratori dipendenti che, in questo caso, non include gli occupati nel pubblico impiego.
Altresì in questa classe si “produce” il 39% del valore aggiunto nazionale.
Se alziamo la soglia, nei comuni sotto i 100 mila abitanti, il Pil prodotto è il 66% del totale, si impiega il 69% degli addetti nelle imprese private e le imprese ubicate sono addirittura il 71%.
Tranne che in Lazio e in Liguria, la maggior parte della ricchezza nel Paese viene “generata” in questa classe dei Comuni.
Sono questi i numeri più significativi che emergono dall’elaborazione redatta dall’Ufficio studi della CGIA, per conto di ASMEL, l’Associazione per la Sussidiarietà e la Modernizzazione degli Enti Locali.
Degli 825,4 miliardi di euro di valore aggiunto prodotto da tutte le aziende private presenti nel Paese (pari a poco meno della metà del Pil nazionale), 541,7 miliardi sono generati nei piccoli e medi comuni e 283,6 miliardi nei grandi.
Se si separa il valore aggiunto totale prodotto dalle imprese private nelle due branche che lo compongono, industria e servizi, emerge la grandissima vocazione manifatturiera dei comuni sotto i 20 mila abitanti ove sono insediate il 54% delle imprese industriali (514.069), il 56% degli addetti (3.029.993) e addirittura il 53% del Pil (182,8 miliardi di euro).
Viceversa, come del resto era facilmente prevedibile, il settore dei servizi è concentrato in particolar modo nelle grandi realtàurbane: nelle città con più di 100 mila abitanti, infatti, vi è il 32% delle unità locali di questo settore, il 37% degli addetti e il 44% del valore aggiunto.
I piccoli comuni con meno di 20 mila abitanti, tuttavia, svolgono anche nei servizi un ruolo per nulla marginale, rappresentando il 38 per cento delle imprese (1.388.939 unità), il 33% degli addetti (3.846.275 addetti) e il 28% del valore aggiunto (137,5 miliardi di euro).
Secondo lo studio, fabbriche, uffici, negozi e botteghe sono concentrate nei comuni a minor dimensione demografica.
Assieme alle realtà comunali di media dimensione, inoltre, sono i principali soggetti economico/ istituzionali cui la politica, anche ai fini della “messa a terra” del Pnrr, dovrebbe guardare con maggiore attenzione.
“Invece – sostiene Francesco Pinto, segretario generale Asmel – il metodo Pnrr privilegia i grandi apparati comunali e concede ai piccoli e medi Comuni di sperare nella lotteria per l’accesso ai finanziamenti”.
A differenza delle grandi aree metropolitane – fa notare Cgia – i piccoli e medi comuni continuano ad avere poche risorse e tante difficoltà nell’accesso ai tanti avvisi pubblici loro destinati e nella gestione dei fondi.
Inoltre, la forte concentrazione delle attività produttive nelle realtà territoriali minori impone ai loro sindaci risposte importanti su temi come la tutela dell’ambiente, la sicurezza stradale, la mobilità, l’adeguatezza delle infrastrutture viarie e la necessità di avere un trasporto pubblico locale efficiente.
Sono criticità – osserva Cgia – che richiedono un approccio pianificatorio su larga scala che, spesso, non si può attivare a causa delle poche risorse umane e finanziarie a disposizione.
Se si analizza la distribuzione delle unità locali delle imprese di industria e dei servizi a livello regionale – conclude la ricerca – solo in Emilia Romagna, Liguria e Lazio l’incidenza percentuale sul totale di quelle ubicate nei comuni con più di 100 mila abitanti è superiore a quella relativa alle imprese insediate nelle amministrazioni con meno di 20mila abitanti.
Per Liguria e Lazio, in particolar modo, questo risultato è ascrivibile al “peso” demografico che i comuni di Genova e Roma hanno nei confronti delle regioni di appartenenza.
Salvarico Mellone
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