La fallimentare politica anti-inflazione di Biden
L’Inflation Reduction Act (IRA), approvato di strettissima misura al Senato il 7 agosto e alla Camera il 12 agosto, è quanto rimane, al momento, del faraonico piano di investimenti pubblici promosso dal Presidente Joe Biden e denominato Build Back Better, che prevedeva spese per migliaia di miliardi di dollari per la transizione energetica e la “ricostruzione del mondo”, ovviamente in modo “migliore”.
Il senatore Bernie Sanders chiedeva infatti di aumentare le spese per sei mila miliardi di dollari, crepi l’avarizia.
Ma perché il provvedimento varato dovrebbe contribuire a ridurre l’inflazione?
Perché si propone di ridurre il deficit fiscale federale.
Lo fa però non tagliando le spese bensì incrementando la pressione fiscale per 737 miliardi di dollari in totale: introducendo una nuova imposta minima del 15% per grandi imprese con utili elevati che dovrebbe portare a maggiori entrate per 222 miliardi; introducendo revisioni ai prezzi della sanità portando a maggiori entrate per 265 miliardi; istituendo una nuova tassa sui buy back azionari che dovrebbe portare entrate per 74 miliardi; prevedendo nuove entrate di 203 miliardi grazie all’aumento del personale dell’Internal Revenue Service (IRS), l’equivalente della nostra Agenzia delle Entrate, di 87 mila persone.
Si prevede quindi di più che raddoppiare l’organico attuale, pari a soli 80 mila addetti: per dare un’idea della portata, basti pensare che lo stadio olimpico di Roma, con una capienza di quasi 73 mila persone, non sarebbe sufficiente a contenere i nuovi assunti.
Sul fonte spese, si prevedono investimenti per la transizione energetica per 369 miliardi, l’espansione per 3 anni dell’Affordable Care Act per 64 miliardi e spese per potenziare l’IRS per 80 miliardi.
Nel suo insieme, il provvedimento dovrebbe consentire una riduzione del deficit federale pari ad almeno 300 miliardi di dollari annui, per lo meno nelle intenzioni.
Ma sarà proprio così?
È innanzitutto importante ricordare che l’inflazione è stata causata dalle Banche centrali, Federal Reserve statunitense in primis, e dalle politiche di deficit spending dei governi, in un processo di finanziarizzazione dell’economia che perdura da un quarto di secolo, in forte accelerazione dopo la Grande crisi finanziaria del 2007-2009 e poi in crescita esponenziale post-CoViD.
Solo sul fronte spesa pubblica basti citare i circa 1.900 miliardi di dollari Usa di spese per la gestione dell’emergenza pandemica, che hanno portato il deficit federale statunitense a circa tre mila miliardi di dollari annui nel biennio 2020 – 2021.
Con tali spese il governo Usa ha cercato di compensare i pesanti effetti negativi della frammentazione delle filiere produttive e distributive legate alle sciagurate politiche di lockdown generalizzati, perseguite peraltro nella maggior parte dei Paesi sviluppati seguendo la folle strategia dello zero-CoViD.
A tali spese si aggiungono poi gli extra costi legati alla transizione ecologica (il green premium di Bill Gates), energetica in primis ma anche alimentare (vedasi i problemi in Olanda degli agricoltori), e in Europa ovviamente le ulteriori strozzature legate al conflitto Russia-Ucraina, con le politiche di pesanti sanzioni da un lato e di forti restrizioni nei flussi del gas, dall’altro.
Se la retromarcia della globalizzazione economica dovesse continuare a causa delle crescenti tensioni geopolitiche e all’utilizzo della moneta, della finanza e del commercio internazionale come armi nelle moderne guerre asimmetriche, il cocktail risulterebbe davvero pesante: si prospetterebbero rischi crescenti di stagflazione, cioè di recessione economica in un contesto di prezzi crescenti, il peggiore dei mondi possibili.
Visto che le responsabilità principali dell’inflazione ricadono sulle politiche monetarie e fiscali dei governi, a partire da quello statunitense, perché mai una legge che non taglia le spese ma si limita ad aumentare l’imposizione fiscale, riducendo il disavanzo di bilancio in misura marginale, dovrebbe quindi servire a contrastare efficacemente l’inflazione?
L’agenzia federale Congressional Budget Office ha previsto che il provvedimento non produrrà effetti statisticamente significativi sul contrasto all’inflazione, mentre altre agenzie si sono dimostrate più ottimiste.
Al di là di questo aspetto, preoccupa la decisione presa di più che raddoppiare il personale dell’IRS e di spingere nella direzione della lotta senza quartiere alle emissioni di anidride carbonica, che conferma l’accanimento dell’amministrazione Biden nel perseguire un’agenda cripto-socialista.
Questa legge sarà inefficace e inutile nella migliore delle ipotesi, ma più probabilmente dannosa per lo spirito di “socialismo verde” che la ispira.
Sul fronte ambientale, accecati dal miraggio della transizione al mondo nuovo, le politiche ideologiche di transizione energetica potrebbero addirittura avere effetti negativi, perché determinano insicurezza energetica e distolgono l’attenzione dai necessari investimenti per continuare a migliorare l’efficienza energetica e favorire la convivenza col supposto cambiamento climatico.
L’IRA è un’operazione di marketing politico elettorale, che negli auspici dell’amministrazione Biden dovrebbe risollevare le sorti del presidente e del Partito democratico, in prospettiva delle elezioni di metà mandato il prossimo novembre.
Forse mai prima nella storia un presidente Usa era sceso così in basso nei consensi: basti pensare che la sua politica economica è apprezzata da solamente il 30% dei cittadini.
L’auspicio è che con la probabile riconquista di Camera e Senato da parte dei repubblicani gli Usa voltino definitivamente pagina, e così facendo aiutino il resto del mondo a uscire dall’incubo di quello “stato di eccezione” continua, creato e alimentato dall’ossessiva narrazione mediatica mainstream post-CoViD.
Altrimenti la classe media sarà destinata a restringersi sempre di più da qui al 2030, anno fatidico indicato dal World Economic Forum di Davos quello in cui “non avremo più nulla e saremo felici”: altro che capitalismo selvaggio, turbo-capitalismo e neoliberismo, come paventano molti criticando un sistema che è vero che non funziona, sbagliando però linguaggio e diagnosi e proponendo di conseguenza una terapia che aggraverebbe ulteriormente il male.
Gli effettivi spazi di libertà economica per i piccoli e medi imprenditori sono già ora molti ristretti, la proprietà privata e la libertà di iniziativa economica sempre più minacciate, mentre il capitalismo clientelare avanza insieme alla pianificazione e al dirigismo politico in salsa rosso-verde.
Una “strada verso la servitù”, come scriveva nel 1944 il celebre economista austriaco Friedrich August von Hayek (1899-1992), in cui avanzano imperterriti “i socialisti di tutti i partiti”. Anche in Italia.
Piero Vernigo
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