Le nuove leggi sull’utilizzo della lingua italiana
1. Due proposte di legge, una ordinaria, una costituzionale
Nelle ultime settimane si è molto discusso di due interventi di natura legislativa riguardanti lo status e l’uso della nostra lingua.
La prima proposta, presentata qualche mese fa, il 23 dicembre 2022, contiene otto articoli di Disposizioni per la tutela e la promozione della lingua italiana e istituzione di un Comitato per la tutela, la promozione e la valorizzazione della lingua italiana. Porta il n. 744 negli Atti parlamentari della Camera dei deputati.
La seconda proposta, assegnata con il n. 337 degli Atti del Senato il 27 dicembre 2022 alla Commissione Affari costituzionali (presentata il 16 novembre), ha lo scopo di introdurre una modifica in Costituzione, introducendovi la menzione esplicita della lingua italiana. Una proposta del genere era stata avanzata anche in passato, per esempio nel 2002 (la formula era allora la seguente: “La lingua italiana è la lingua ufficiale della Repubblica”); ora viene modificata e arricchita con una precisazione ispirata all’attuale Costituzione spagnola: “L’italiano è la lingua ufficiale dello Stato. Tutti i cittadini hanno il dovere di conoscerlo e il diritto di usarlo”. L’inserimento dell’italiano in Costituzione dovrebbe avvenire nell’art. 12, quello in cui è menzionata la bandiera tricolore. La lingua viene dunque collocata tra i “simboli” della Repubblica (l’inserimento, in teoria, potrebbe stare anche altrove, per esempio nell’articolo 6 o nel 9, dove si parla rispettivamente di lingue minoritarie e di beni culturali).
Anche la proposta n. 744 di legge ordinaria, all’art. 1, comma 1, contiene l’affermazione secondo la quale “La lingua italiana è la lingua ufficiale della Repubblica, che ne promuove l’apprendimento, la diffusione e la valorizzazione nel rispetto della tutela delle minoranze linguistiche ai sensi dell’articolo 6 della Costituzione e della legge 15 dicembre 1999, n. 482”. Sarà bene ricordare che la legge 482/1999, in vigore, già stabilisce che “1. La lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano. 2. La Repubblica, che valorizza il patrimonio linguistico e culturale della lingua italiana, promuove altresì la valorizzazione delle lingue e delle culture tutelate dalla presente legge”. Possiamo aggiungere che la Corte costituzionale ha più volte esplicitato la natura di lingua ufficiale dell’italiano, ricavando in maniera raffinata questo principio da altre fonti, ma definendo comunque la sua indiscutibile “primazia”[1]. Attorno all’italiano in Costituzione, dunque, si sta creando un certo affollamento legislativo. Non a caso, i media se ne sono occupati negli ultimi tempi a più riprese.
2. L’italiano in Costituzione
Per quanto concerne l’inserimento dell’italiano in Costituzione, l’Accademia della Crusca ha espresso in passato il proprio parere favorevole, pur con qualche personale riserva di principio del presidente Marazzini per la troppa facilità con cui si tende oggi a intervenire sul testo costituzionale su disparate materie, non sempre con risultati brillanti.
Nel 1998 la proposta dell’italiano in Costituzione fu formulata da Giovanni Nencioni. Nel 2006, una delegazione composta da Francesco Sabatini (Presidente dell’Accademia), Nicoletta Maraschio (Vicepresidente) e Vittorio Coletti (accademico) si recò a Roma per un’audizione presso la Commissione Affari costituzionali della Camera, e illustrò la posizione della Crusca, dichiarando che la menzione dell’italiano come lingua ufficiale della Repubblica “è un gesto opportuno e auspicabile, perché riconosce e sintetizza una realtà di fatto secolare, voluta e condivisa da tutte le aree culturali del nostro Paese”[2]. Non si può non confermare quanto allora espresso, nonostante si siano udite autorevoli opinioni risolutamente contrarie, come quella di Sabino Cassese[3]. Partecipando alle recenti discussioni sul tema, ho fatto osservare che i vari modelli di costituzione dei paesi d’Europa, nei casi in cui menzionano la lingua, offrono diverse formulazioni. Prima di tutto, si distingue tra la dichiarazione di lingua “ufficiale” e lingua “nazionale”. L’indicazione di lingua “nazionale” ricorre raramente: solo la Confederazione Elvetica ammette l’italiano come lingua allo stesso tempo ufficiale e nazionale (non da sola, ma assieme ad altre lingue). La qualifica di “nazionale” non si ritrova nelle proposte italiane, nelle più remote, ma nemmeno nelle più recenti: probabilmente la qualifica di nazionale è temuta ed evitata, anche se la Svizzera non sembra turbata dalla portata semantica dall’aggettivo.
Anche in Francia la lingua è menzionata nella Costituzione: la Francia ha inserito il riferimento (“La langue de la République est le français”) nel 1992, in vista della ratifica del trattato di Maastricht, quando i rapporti con l’Europa si andavano facendo più stretti e più forte era il timore di un eccesso di predominio dell’inglese.
Nella costituzione di Spagna si trova l’articolo a cui ci si è ispirati nella proposta italiana n. 337. La formulazione è legata al rapporto con le forti minoranze linguistiche, in particolare quella catalana, di cui in Italia non esiste equivalente (i problemi delle minoranze linguistiche italiane sono stati risolti bene da tempo, specialmente in Valle d’Aosta e in Alto Adige). Francia e Spagna, comunque, hanno scelto formulazioni che potremmo definire “difensive”, oltre che simboliche: la lingua sta come simbolo accanto alla bandiera nazionale. Per questo mi sono chiesto se non sarebbe una buona idea ispirarsi al diverso stile della Costituzione del Portogallo, che non menziona il portoghese solo tra i simboli della patria (art. 11.3: 3. “A língua oficial é o Português”), ma, con mossa originale, lo colloca tra gli scopi e obiettivi della nazione, all’art. 9: lo Stato, infatti, deve garantire valori come l’indipendenza, i diritti fondamentali, la democrazia, la qualità della vita, l’uguaglianza tra uomo e donna, la qualità dell’ambiente, e (ecco il punto) deve anche “Assegurar o ensino e a valorização permanente, defender o uso e promover a difusão internacional da língua portuguesa” (art. 9 lettera f). In qualche misura, la formulazione ricorda la proposta 744 di legge ordinaria sopra menzionata, ma non la 337 costituzionale.
Mi pare evidente che le proposte 744 di legge ordinaria e 337 di modifica costituzionale avrebbero potuto e potrebbero essere armonizzate molto meglio tra loro, anche in considerazione del fatto che provengono da una medesima parte politica, per cui il confronto dovrebbe essere più facile.
3. Perplessità interpretative e spirito sanzionatorio
La proposta 744 ha suscitato maggiori polemiche della proposta 337. La reazione è stata forte soprattutto di fronte alle sanzioni pecuniarie previste nei casi di violazione. Le polemiche giornalistiche hanno fatto trascurare elementi interessanti e piuttosto nuovi, pur presenti nella legge, come la questione dei contratti di lavoro in lingua italiana (art. 5), che meriterebbe di essere esaminata da esperti di diritto del lavoro, ma che a prima vista a me pare legittima e auspicabile. In un clima di globalizzazione e di forte presenza di multinazionali operanti in Italia, infatti, il vincolo del contratto di lavoro comunque redatto anche in italiano potrebbe essere una garanzia da non trascurare. Prima ancora di una sanzione economica, nei casi di violazione si potrebbe pensare alla semplice nullità dell’atto, certamente efficace. Ma non si è discusso di questo, come ho detto, perché l’attenzione si è concentrata sul preambolo alla proposta di legge 734, scritto in maniera scarsamente coerente rispetto al contenuto degli otto articoli, tale da far pensare soprattutto a una lotta contro singoli forestierismi introdotti nella lingua, e tale da attirare troppo l’attenzione sulle sanzioni legate al loro impiego. Molte perplessità ha suscitato l’art. 4, là dove vieta l’uso di sigle e denominazioni in lingua straniera salvo il caso di “assenza di un corrispettivo in lingua italiana”. Questa scappatoia si presenta come particolarmente insidiosa, perché è difficile stabile se e quando l’equivalenza tra lingue diverse sia soddisfacente, e quale sia questa equivalenza nei casi dubbi, che rischiano di essere molti. Una formulazione così vaga lascia spazio a un imbarazzante contenzioso.
Molto ci sarebbe poi da discutere sulle funzioni assegnate a un organo previsto dalla proposta di legge, un organismo peraltro privo di compensi per i suoi membri, e privo persino di rimborsi spese: mi riferisco al Comitato per la tutela, la promozione e la valorizzazione della lingua italiana. Credo che dietro la proposta 744 ci sia il fantasma del Consiglio superiore della lingua italiana, proposto al tempo del governo Berlusconi, e il ricordo (o la semplice imitazione) della legge Toubon francese del 1994.
4. La partita vera si gioca nelle università
Mi pare legittimo chiedersi se le proposte di legge sopra menzionate e attualmente in fase di discussione siano segno di una rinnovata scelta di politica linguistica attiva, o siano semplicemente un modo per richiamare l’attenzione, suscitando polemiche destinate a far parlare molto senza davvero incidere sulla realtà, magari dando spazio ad avversari politici pronti a dar luogo a uno scontro puramente ideologico sull’abuso di inglese visto come di per sé progressista da chi non si riconosce nel governo in carica (si sono già manifestati i primi segnali di questa deviazione patologica). Questa sarebbe una paradossale iattura, perché l’interesse per la lingua italiana dovrebbe accomunare tutti, al di là delle diverse visioni politiche.
Sarebbe necessario distinguere nettamente l’introduzione di termini inglesi nell’uso comune quotidiano dei parlanti dall’abuso di inglese nella comunicazione sociale pubblica delle istituzioni statali (a cui sarebbe stato meglio limitare l’intervento). Soprattutto occorrerebbe essere molto attenti a un fenomeno che non sembra essere stato colto con chiarezza dal legislatore: vanno combattuti senza tentennamenti i casi, non rari, di emarginazione totale della lingua italiana, specialmente quando essa viene rimossa dall’alto, ad opera di italiani, e in Italia, non all’estero o ad opera di stranieri (gli italiani sono molto bravi nel farsi male da soli). Purtroppo gli esempi più evidenti di emarginazione totale e autoritaria dell’italiano si sono verificati e si verificano in un settore di primaria importanza e di grande peso qual è l’ambito universitario.
Occorre individuare con preciso discernimento i diversi livelli e ambiti di discriminazione della nostra lingua. Ne identificherei almeno tre: 1) discriminazione nella burocrazia universitaria; 2) discriminazione nella didattica universitaria; 3) discriminazione nella ricerca universitaria.
5. La burocrazia universitaria
Nella burocrazia universitaria: l’uso dell’italiano è impedito nelle domande di finanziamento internazionale, nazionale, e molto spesso (ed è il caso meno giustificabile) anche in sede locale. Le domande devono essere presentate tutte esclusivamente in inglese, pena la loro nullità. Se ne può trovare una parziale giustificare per le domande presentate a organi internazionali. Tuttavia anche per le domande di ricerca “nazionali” la scelta dell’inglese in forma esclusiva è stata imposta negli ultimi anni, con le motivazioni più fantasiose, e persino invocando talora il principio che il giudizio di valutatori stranieri è sempre e sicuramente garanzia di imparzialità, indipendentemente dalla competenza e specificità, che invece per certe ricerche richiederebbe per forza anche la conoscenza dell’italiano[4]. Reagendo a queste imposizioni prive di senso, abbiamo sempre sostenuto che NON si tratta di eliminare l’inglese, ma allo stesso tempo non vi è ragione per ELIMINARE L’ITALIANO. La soluzione delle DUE lingue COESISTENTI garantirebbe, come è stato per anni, la massima trasparenza, e soddisferebbe appieno le esigenze di circolazione internazionale, salvaguardando allo stesso tempo i legittimi diritti della lingua ufficiale. Tuttavia questa argomentazione, nella sua lineare logica apparentemente indiscutibile, non ha mai incontrato il favore del ministero, che non si è nemmeno degnato di discuterla con noi. Perché il ministero non prova mai a considerare una linea diversa di azione, o almeno non spiega in maniera comprensibile le ragioni della propria scelta?
Mi pare che in questo caso, cioè il caso in assoluto più grave di abolizione forzosa dell’italiano nell’uso pubblico, se si volesse davvero invertire la tendenza, non sarebbe necessario introdurre la complicazione di nuove leggi (rimanendo fermi al palo in attesa della loro più o meno probabile approvazione). Basterebbe un atto formale immediato: chi emette i bandi, cioè il ministero, è perfettamente e facilmente in grado di condizionare la scelta della lingua. Lo ha fatto in passato, a danno dell’italiano. Può farlo oggi, a vantaggio dell’italiano. I promotori delle nuove norme, se davvero amano l’italiano e vogliono fermare la sua ingiusta emarginazione, dovrebbero prima di tutto farsi promotori di una campagna di convincimento nei ministeri di un governo in cui sono rappresentate le forze politiche della loro stessa maggioranza.
6. L’equivoco interessato della didattica universitaria e della ricerca
Per il punto 2), cioè la didattica universitaria affidata in maniera crescente all’inglese, anche là dove non vi è alcuna utilità nella scelta, sarebbe più che sufficiente invitare il ministero dell’Università al rispetto di quanto stabilito dalla sentenza 42/2017 della Corte costituzionale, una sentenza che è stata sostanzialmente ignorata, se non volutamente e astutamente disattesa, nel silenzio del Parlamento e dei Governi. I promotori delle nuove leggi, dunque, potrebbero farsi carico di interrogazioni parlamentari, le quali non mancherebbero di rompere il velo d’oblio su di un problema ben noto e di vecchia data, ma bellamente trascurato.
Per il punto 3), cioè la ricerca, sulla quale siamo intervenuti tempo fa con un’apposita analisi fondata sui dati Anvur, basterebbe lasciare libero spazio alle scelte dei ricercatori, evitando però di forzarle mediante una subdola discriminazione a priori nella valutazione dei ‘prodotti’ in lingua italiana. Si dovrebbe tener conto anche delle specificità di settore, connesse alla differenza tra discipline. Si eviterebbe così una spinta indiretta, dannosa e truffaldina, all’abbandono dell’italiano, lasciando spazio alla libera opzione degli studiosi, senza truccare le carte, come si fa oggi, quando si tende ad avvantaggiare ciò che magari è mediocre o di minor valore, e vanta solo il pregio di essere proposto in inglese. La valutazione si deve fare sui contenuti e sul loro peso reale, non a priori sulla scelta della lingua, scelta che, oltre al resto, marginalizza le altre lingue estere, a cominciare da quelle della UE.
7. Artefatti meccanismi premiali
Inoltre, nella politica universitaria, dovrebbero essere messi sotto esame i meccanismi premiali che spingono gli atenei a forzare l’istituzione di corsi in inglese là dove non sono necessari, in nome di un concetto di internazionalizzazione utilizzato in modo velleitario e pretestuoso (su questo fa luce la già citata sentenza 42/2017). L’internazionalizzazione, intesa (male) come richiamo a qualunque costo di studenti quali che siano, pur che stranieri, selezionati solo in base alla loro non-nazionalità italiana assunta come titolo di merito e di vantaggio, porta ad attirare ‘clienti’ mediante il ribasso dei costi e facilitazioni di vario genere (anche nella valutazione), al solo scopo di far lievitare i numeri. I numeri sono considerati di per sé un traguardo, indipendentemente dai risultati e dai metodi adottati, e senza che sia chiaro lo scopo di operazioni del genere, ovviamente ben diverse dall’attrattività reale rappresentata dai più prestigiosi atenei del mondo, in cui si fa la fila per entrare, e in cui si paga un caro prezzo per l’iscrizione e la frequenza[5]. Ci si dovrebbe chiedere quando e in quali casi sia utile formare medici, ingegneri ecc. insegnando loro il sapere solo in una lingua diversa dalla nostra, quasi che il loro destino certo fosse l’emigrazione, e conducendo l’italiano verso una lenta ma inesorabile asfissia culturale, mediante una sorta di provincialismo suicida. Ci si comporta come se tutti questi medici o ingegneri (e ormai persino umanisti) dovessero partire il giorno dopo per l’estero, pur formati in università con bilancio sostenuto dal contribuente italiano. Sarebbe dunque utile verificare la qualità, l’utilità (sempre data per scontata in partenza, ma mai dimostrata), e anche l’effettiva conduzione dei corsi in inglese già attivi ed approvati, che non mancano talora di suscitare perplessità, e fanno realisticamente sospettare un livello meno elevato di quelli tradizionali in italiano. Si osservi il fatto che vengono trionfalmente annunciati corsi universitari di presunta alta specializzazione in inglese, ma si richiede l’accesso mediante il possesso del livello B1: ciò equivale a una dichiarazione di inadeguatezza in partenza, perché tale livello garantisce magari la comunicazione per usi turistici quotidiani, ma non assicura certo la capacità di comprendere e imparare discipline scientifiche di alto livello. Allo stesso tempo credo sia necessario verificare le modalità con cui si concede agli studenti stranieri che si iscrivono in Italia la qualifica del sufficiente livello linguistico: c’è il sospetto che questo livello non venga verificato secondo gli standard internazionali, ma venga ceduto con sconto, al solo scopo di far crescere a qualunque costo il numero degli studenti stranieri, in particolare quelli extraeuropei. Tutte queste deviazioni si spiegano, come ho detto, non per una politica ideata dagli atenei, ma come risposta obbligata agli sconcertanti meccanismi premiali che ho avuto modo di descrivere.
8. Chi vuole intervenire, può farlo subito
Tutto quello che abbiamo qui discusso offre un vasto campo di intervento che potrebbe essere coltivato dai rappresentanti della nazione che intendessero avviare una seria politica linguistica, diversa da quella attuale. La semplice applicazione delle regole già esistenti sarebbe più incisiva rispetto alla fantasiosa proposta di leggi nuove di difficile attuazione, e inciderebbe direttamente sulla realtà italiana (certo, non senza suscitare polemiche: ma polemiche che avrebbero perlomeno un senso, perché a quel punto sarebbe palesemente in corso la rottura di un modello sbagliato di politica linguistica). Le resistenze non mancherebbero, perché la lenta e costante opera di erosione dello spazio della lingua italiana è andata molto avanti in questi anni, diventando opinione diffusa e luogo comune, nonostante i ripetuti interventi dell’Accademia della Crusca.
9. La scuola e la scarsa considerazione dell’italiano
Quanto alla scuola, si potrebbe suggerire ai responsabili del Ministero dell’istruzione e del Merito una seria riflessione sui risultati del CLIL e sulla sua discutibile estensione a discipline diverse da quelle che richiedono l’uso di metalinguaggi. Sarebbe anche l’occasione per verificare le modalità di penetrazione dei Licei Cambridge, ormai estesi in maniera capillare, con una crescita avvenuta nel più totale disinteresse da parte del ministero dell’Istruzione, ma con riflessi pesanti sulla didattica, sui libri di testo acquistati all’estero, sui criteri di valutazione e sul contenuto dei programmi, con risultati paragonabili a quelli di una vera piccola riforma, condotta però in maniera surrettizia, senza controllo effettivo, e avviata per interessi privati di marketing internazionale.
Arriviamo così alla questione che spesso spicca come più grave, e che in realtà a noi pare secondaria rispetto ai gravissimi casi sopra elencati di abolizione globale e sostanziale della lingua italiana, emarginata ad opera della stessa burocrazia italiana. La lingua italiana viene estromessa da funzioni che dovrebbero esserle garantite. Si parla invece anche troppo della questione dei prestiti integrali e degli esotismi isolati, si lamenta comunemente la sovrabbondanza di anglismi. Senza dubbio l’afflusso di anglismi è ormai patologico, ma la causa di questo sintomo della malattia (l’eccesso di forestierismi è appunto sintomo, non causa) sta proprio nella scarsa considerazione attribuita alla lingua italiana, prodotta dalle scelte improvvide che abbiamo stigmatizzato nelle argomentazioni fin qui svolte.
10. Un banco di prova. Cambiare politica linguistica non richiede nuove leggi: basta aver voglia di fare
In molti casi il gruppo Incipit, nei suoi comunicati, ha dovuto battersi contro l’abuso di termini inglesi introdotto da istituzioni statali nella propria comunicazione istituzionale. Per rendersene conto, basta scorrere i vari comunicati Incipit, dove si è discusso l’uso di termini come hot spot, voluntary disclosure, stepchild adoption, whistleblower, home restaurant, caregiver, revenge porn, data breach, compliance, booster e via dicendo. Tutti erano stati messi in circolazione dalla burocrazia italiana, non certo imposti da qualche autorità straniera malevola nei confronti dell’Italia. Anche in questo caso, tuttavia, l’attenzione si dovrebbe concentrare non tanto su singoli anglismi, ma sulle azioni che moltiplicano inutilmente la pressione dei forestierismi sollecitandone la crescita in funzione non della praticità, della chiarezza, dell’efficacia fattuale, ma spesso sfruttandoli esattamente come un latinorum. Con buona pace di coloro che nelle polemiche di questi giorni hanno ribadito che il vero nemico della comunicazione pubblica è il burocratese, va ribadito che oggi l’inglese svolge appunto la funzione di burocratese. Basta leggere il Piano scuola 4.0 per rendersene conto. C’è dunque chi coltiva amorevolmente gli anglismi in una miscela di oscurità burocratica, come comodo moltiplicatore di pseudoconcetti che arricchiscono il vaniloquio retorico ammantato di esibita tecnocrazia[6]. Anche in questi casi (alcuni dei quali ancora attuali: penso appunto al Piano scuola 4.0), non sono necessarie nuove leggi per intervenire efficacemente. Sarebbe sufficiente l’avvio di una politica linguistica che, intervenendo caso per caso, perseguisse obiettivi di chiarezza e concretezza linguistica, e attribuisse a ciascuna lingua, italiano, inglese, francese, tedesco o altro che sia, lo spazio che merita, favorendo fra l’altro una miglior considerazione del concetto di “lingua straniera” e di “internazionalizzazione”, non all’insegna del monolinguismo a senso unico, ma al servizio della pluralità delle lingue d’Europa.
Claudio Marazzini presidente dell’Accademia della Crusca
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