Alla prevenzione preferiamo l’emergenza e i pianti
Ipocrisia e buonismo: questa è l’arma italiana contro le avversità, che scoppi una guerra, un incendio o un terremoto.
In questi giorni abbiamo assistito attoniti al disastro in Emilia Romagna: sono arrivati puntualissimi il consueto impegno dei giornali (ma dove erano prima?), gli appelli alla “solidarietà”, l’invio di cibo, vestiti, cioccolata, il conto corrente su cui versare una donazione.
Ogni aiuto è benedetto, certo, ma la domanda da farci è: “Non è che facciamo tutti i buoni dopo, solo perché ci rendiamo conto che il Paese prima non è mai in grado di gestire prevenzione e manutenzione, in maniera organica e scientifica, tanto più in un’area a rischio non da oggi ma almeno dall’alluvione del Polesine?”
“Facciamo i donatori di belle parole o vestiti usati solo perché, prima, non siamo stati in grado di creare e gestire un sistema di controllo sistematico del territorio?”.
Dopo il guaio di turno ciò che governa sono ipocrisia, menefreghismo preventivo e ricerca del consenso.
Così, ogni volta si va avanti con settimane di lacrime, video da Armageddon, Tg che sembrano convinti di trovarsi su un pulpito.
Con questa coltre di nebbia del volemose bene si va avanti per altri anni e decenni di silenzio sul risolvere il problema emerso tragicamente.
E poi di nuovo, quando i buoi dell’ennesimo disastro saranno scappati, si tornerà a un chiasso persino eccessivo.
Amiamo l’emergenza e non sappiamo cosa sia la prevenzione, se non nelle balle cinesi dei corsi di formazione, delle leggi, dei proclami e delle frottole di cui sono fatte le narrazioni che ci raccontiamo.
Allora, forse, il sentimentalismo dopo ogni guaio è direttamente collegato col menefreghismo e l’incapacità di agire prima dello stesso guaio.
Sia chiaro, i Tg e la gente questo arrivano a dirlo.
Ma poi, come in una continua Pompei nazionale, dopo le parole, tutto viene coperto dai metri di cenere e lapilli di cui ci siamo cosparsi il capo.
Tutti vorrebbero che si agisse prima, ma gli stessi poi continuano a ignorare la costruzione continua di città ben gestite, un lavoro certo oggi titanico ma comunque indispensabile.
Così finisce che ci ritroviamo tutti attorno al tavolo di un ristorante o sopra una panchina a dire e ridire le stesse cose, e a porre mano a doni e raccolte solo per l’ennesimo “ego me absolvo”.
Siamo parte di questo teatro moralistico: gente comune, sindaci, stampa, governi, partiti, cineasti, canarini.
Siamo sempre noi, ciarlieri, leggeri o lacrimosi, tra la pizza del sabato e i pasticcini della domenica.
Niccolò Rejetti
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