Il locomotore tedesco continua a rallentare
Uno studio dell’Istituto economico tedesco (IW), basato su dati Ocse, rileva che nel 2022 la Germania ha effettuato investimenti diretti esteri per 125 miliardi di euro, a fronte di soli 10,5 miliardi di investimenti diretti esteri in Germania.
Tra le cause, vengono indicati i sussidi americani e l’elevato costo dell’energia tedesca, la fuoriuscita dal motore a combustione interna e la carenza di manodopera specializzata.
Il dato di un singolo anno non può certo essere assunto a base di una tendenza, ma in Germania il dibattito è molto vivo, accompagnato dalla tradizionale Angst tedesca, e si moltiplicano le grida d’allarme per il rischio deindustrializzazione.
Secondo le ultime previsioni del Fmi, la Germania nel 2023 sarà l’unico paese del G7 a segnare una contrazione nella crescita, pari allo 0,1%.
Negli ultimi cinque trimestri, solo due hanno avuto segno positivo.
Il timore è che la Germania sia giunta al capolinea del suo modello di sviluppo e debba reinventarsi, con un processo necessariamente non breve e doloroso.
Berlino ha il problema di costi energetici non competitivi, eccessiva dipendenza dalla tradizione ingegneristica di vecchia scuola, scarsa reattività politica e commerciale a orientarsi su settori a maggiore crescita, un sistema finanziario molto statico e frammentato.
La politica tenta la reazione: sui costi dell’energia, il vice cancelliere, ministro dell’Economia e co-leader dei Verdi, Robert Habeck, ha lanciato la proposta di sussidi alle aziende energivore, al passo di 4 miliardi di euro annui e fino al 2030, per un costo al kilowattora di sei centesimi per l’80% del consumo storico, in modo da stimolare il risparmio energetico.
La proposta di Habeck, che punta anche a favorire lo sviluppo di un’industria nazionale di pannelli solari e semiconduttori, è avversata dal ministro delle Finanze, il liberale Christian Lindner, che assume pavloviane posture anti sussidi, da far valere soprattutto in sede di negoziati sul rinnovo del patto di stabilità in Ue.
Dopo tanta faccia feroce cede di fronte alla richiesta di Intel di un corposo “adeguamento” della quota di sussidi per realizzare l’impianto di Magdeburgo: dieci miliardi di soldi pubblici su un esborso complessivo di trenta.
Questa pare essere l’epitome dei problemi tedeschi: con la fine del motore termico e il de-risking europeo in Cina, oltre alla poderosa offensiva cinese sull’auto elettrica, Berlino deve capire che ruolo ritagliarsi nel mondo, nel momento in cui il tradizionale approccio mercantilista viene severamente danneggiato dalla ripresa della logica dei blocchi e da crescente protezionismo e integrazione tra stato e industria.
Questa crisi del modello tedesco porta con sé alcune ricadute rilevanti, su scala europea.
In primo luogo, e con buona pace dei richiami all’equilibrio di bilancio, i tedeschi reagiscono alle difficoltà mettendo mano al portafoglio e puntando su sussidi che le loro capienti tasche possono (ancora) permettersi.
Così facendo, rischiano di segare il ramo del mercato unico europeo su cui tutti siamo seduti.
Ma le criticità della transizione ecologica sono vera e propria benzina nel motore (rigorosamente termico) dei movimenti populisti, come dimostra la crescita dell’estrema destra di Alternative für Deutschland.
La proposta, sponsorizzata dai Verdi, di vietare le caldaie a gas sostituendole con pompe di calore, con un maggiore esborso immediato per famiglia stimato in 20 mila euro, ha causato sollevazioni popolari che ne hanno portato al ritiro.
Nei mesi scorsi, Habeck aveva proposto un balzello sulle bollette per aiutare i fornitori di energia in crisi.
Anche qui, proposta ritirata dall’esecutivo e sostituita con un fondo a debito di 200 miliardi, contabilizzato con notevole ipocrisia fuori dalla sacra regola del “freno al debito”.
Una Germania smarrita può affossare l’intera costruzione europea.
Arnaud Daniels
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