Il salario minimo scontro politico distante dalla realtà
Il dibattito sul salario minimo per legge stenta ad affrontare una serie di questioni rilevanti per restare confinato in un ambito assai ristretto che vede due schieramenti eterogenei contrapposti ma a perimetro variabile.
Ad esempio non trovano spazio due elementi cruciali come le consistenti differenze territoriali del potere d’acquisto e la poca trasparenza della composizione delle retribuzioni.
Emblematica, sul secondo punto, la notizia sulla stampa di 22 contratti sottoscritti da Cgil, Cisl e Uil sotto i 9 euro, ignorando che il minimo tabellare non corrisponde al trattamento economico complessivo che prevede diverse voci, anche componenti differite, come scatti di anzianità, indennità, ecc.
Altri temi rilevanti sono la rigidità del modello contrattuale che ha alimentato i fenomeni degli accordi pirata e dell’aziendalizzazione dei contratti.
E la mancata affermazione della contrattazione di secondo livello.
Gli ultimi dati indicano 7.650 contratti depositati tra aziendali e territoriali, per un totale di appena 2,5 milioni di lavoratori.
Anche su questa voce il gap tra Nord e Sud tende ad ampliarsi.
Il 71% dei contratti è operativo al Nord e solo l’11% nel Mezzogiorno.
Per chiudere il cerchio, va segnalata la modesta capacità di controllo sull’applicazione dei contratti collettivi e l’efficacia automatica di ogni contratto a prescindere dal livello di rappresentatività dei firmatari.
In tale contesto, immaginare che una norma generale sia la soluzione dei problemi e la garanzia di retribuzioni dignitose significa vivere nel mondo dei sogni.
Ma anche le parti sociali devono rendersi conto che sventolare che oltre l’80% dei lavoratori è coperto dalla contrattazione non è un argomento sufficiente per contrastare il salario minimo per legge.
Arnaud Daniels
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