Conviene ancora investire sull’eolico?
Il campanello d’allarme è scattato con le parole di Mads Nipper, amministratore delegato del gruppo Orsted.
Non proprio l’ultimo arrivato, visto che la multinazionale danese è uno dei colossi nella produzione di energia eolica nel mondo e ha portato il Paese scandinavo, negli ultimi anni, a soddisfare la sua domanda di energia per oltre il 50% grazie all’apporto delle rinnovabili.
“Stiamo valutando se abbandonare il nostro più importante progetto di eolico offshore negli Stati Uniti”, ha dichiarato il manager a Bloomberg.
Con l’Inflaction Reduction Act (Ira), l’amministrazione Biden ha varato un piano di sussidi da 737 miliardi con il quale vuole sostenere il rilancio economico attraverso progetti per la transizione energetica.
Ma anche recuperare lo svantaggio competitivo con la Cina, diventata leader del settore.
Sulla carta, una manna per l’industria della green economy a livello globale: l’Ira è un programma aperto a tutti, ma con l’obbligo di forniture e personale made in Usa.
Per l’eolico, in particolare, il piano è quanto mai interessante, perché Washington vuole raggiungere i 30 Gw di potenza installata entro la fine del decennio.
Eppure il progetto Orsted appare destinato a spiaggiarsi.
Il fatto che tutti i componenti debbano provenire dagli Usa sta creando problemi alle forniture.
Non ce ne sono abbastanza e sono più costose.
Per non parlare dei ritardi dettati dalle pratiche burocratiche e da quanto accaduto durante l’emergenza Covid.
L’unica sarebbe rinegoziare i tempi di realizzazione e farsi pagare di più per l’energia elettrica prodotta.
Ma tutto questo è solo una parte del problema che, più in generale, colpisce i grandi impianti eolici in mezzo al mare.
Non solo negli Usa, ma a livello globale.
L’aumento dei tassi di interesse ha gonfiato la colonna dei costi.
È il caso degli operatori in Gran Bretagna, uno dei Paesi che più di altri in Europa punta sul vento per sostituire i combustibili fossili: la Banca d’Inghilterra, per dire, ha alzato i tassi di interesse dallo 0,5% del luglio 2022 al 5,25% del luglio 2023.
La Bce, per spostarsi nella Ue, non è stata da meno: dallo 0,5 al 4,25% nello stesso periodo.
A tutto ciò si aggiunge il tema materie prime: le quotazioni – in molti casi – sono ai massimi, spinte verso l’alto dalla guerra in Ucraina, ma soprattutto dalla domanda crescente proprio da parte degli operatori.
La rivista New Scientist ha citato uno studio commissionato dall’Associazione olandese per le energie rinnovabili in cui si afferma che l’aumento delle materie prime farà crescere i costi di 163 miliardi di euro per completare i progetti necessari per completare la transizione energetica prevista da Bruxelles entro il 2050.
Anche in questo caso abbiamo già un esempio concreto: la svedese Vattenfall ha annunciato lo stop a un progetto nel Mare del Nord da 1,4 Gw, uno dei più grandi della Gran Bretagna, perché i costi sono saliti del 40%.
Le conseguenze pratiche di quanto raccontato si misurano già nei numeri.
Per Orsted, ad esempio, si riflettono anche nelle quotazioni in Borsa.
L’annuncio dei problemi negli Usa ha causato un nuovo crollo in Borsa una settimana fa, portando il calo delle quotazioni da inizio anno attorno al 37%.
Potrebbe esserci una soluzione, anche se non molto popolare: per consentire all’industria di realizzare i progetti futuri, è “inevitabile” che i prezzi al consumo dell’energia aumentino, ha detto Nipper.
In pratica, occorrerebbe rivedere gli accordi sui prezzi stabiliti a suo tempo per la fornitura di elettricità.
Nel caso dei progetti negli Usa, consentire alle aziende la possibilità di rifornirsi, in alternativa, anche da altre parti del mondo.
Ma in attesa che Washington decida, rimangono tutte le altre questioni aperte.
Che non riguardano solo Orsted.
Quanto accaduto alla società danese non è che il caso più clamoroso, perché problemi simili e possibili rallentamenti nello sviluppo delle grandi factory in mezzo al mare riguardano altri colossi da Vattenfall alla spagnola Ibredrola.
Ma in una fase della storia dell’energia che non a caso viene definita di transizione, si tratta di inconvenienti in qualche modo preventivabili e che potrebbero portare in futuro anche alcuni benefici.
Sempre che ci siano scelte politiche che ne limitino le conseguenze negative.
Così la pensa Toni Volpe, amministratore delegato di Renantis, impegnata nello sviluppo dell’eolico offshore in Italia: “le rinegoziazioni di contratti di fornitura di energia rinnovabile, soprattutto quando vengono sottoscritti anni prima dell’entrata in esercizio, ci sono sempre stati e ci saranno sempre. Possiamo citare il caso degli Stati Uniti, quando lo scorso anno ci sono state forti limitazioni per questioni etiche sull’approvvigionamento di pannelli dalla Cina”.
Ma anche Volpe concorda che l’eolico si trova di fronte a un punto di svolta importante, da cui l’importanza della politica: “l’emergenza Covid e poi l’insorgere di questioni geopolitiche hanno messo in luce le difficoltà della supply chain globalizzata. Se la capacità di rifornirsi a prezzi competitivi da alcuni Paesi produttori viene a mancare, risulta allora chiara la necessità di sviluppare la catena locale. Gli Stati Uniti, con l’Inflaction Reduction Act, hanno lavorato in questa direzione, sussidiando la crescita della supply chain nazionale”.
“Si tratta di una operazione che nel medio periodo crea competenze, occupazione e valore aggiunto.
È qualcosa che ci si aspetta anche dall’Europa. Nell’eolico, ad esempio, possedendo già parte delle competenze a livello locale e nazionale, riposizionarsi potrebbe essere meno problematico”.
Anselmo Faidit
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