Standard & Poor’s lascia invariato il rating sull’Italia
Il 20 ottobre Standard & Poor’s ha rivisto il rating sull’Italia e ha deciso di lasciarlo invariato. Il giudizio resta quello di BBB con un outlook (previsione) stabile Identico parere è stato espresso da Fitch il 10 novembre.
Per tirare un sospiro di sollievo per la mancata bocciatura dei conti italiani bisogna spettare il giudizio di Moody’s venerdì 17.
Moody’s dovrà valutare l’affidabilità finanziaria dell’Italia e stabilire se il debito pubblico sia o meno ripagabile.
Un giudizio temutissimo perché anche da esso dipende la stabilità del Paese perciò è fondamentale sapere da che base di partenza le tre agenzie internazionali decidono per dare il loro voto.
Il giudizio di Standard & Poor’s (S&P’s) è analogo a quello emesso a maggio da Fitch ed è superiore a quello di Moody’s che nella prima parte di quest’anno non ha modificato il proprio giudizio, ovvero “BBB-“, corrispondente al più basso dei gradini del rating che secondo queste agenzie caratterizzano gli investimenti “sicuri” (investment grade).
Al di sopra di questo ve ne sono altri nove, fino a quello massimo, “AAA“, mentre al di sotto, a partire dal “BB+” (Ba1 nel caso di Moody’s, che usa una nomenclatura in parte diversa) iniziano quelli considerati troppo bassi per consigliare un investimento, fino al “D” (al “C” per Moody’s), che viene dato quando ormai il Paese è in default.
In 37 anni le tre agenzie ci hanno promosso (ovvero, hanno migliorato il loro giudizio) solo 3 volte. Tutte le altre volte che ci hanno messo sotto osservazione sono state bocciature (o, al limite, non hanno modificato il giudizio).
Eppure nel 1986 Moody’s assegnava ai nostri titoli di Stato la valutazione massima, l’agognatissima e famosa “tripla A” cioè 21 nostro caso.
Il rapporto tra debito pubblico e Pil stava crescendo da alcuni anni, era arrivato quasi all’80%, con un incremento del 24% in soli 5 anni.
Si era trattato di un aumento causato soprattutto dal celebre divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, che aveva messo fine all’assorbimento dei titoli del debito pubblico non collocati sul mercato da parte della nostra banca centrale.
Titoli di Stato che avrebbero alimentato il debito pubblico, che continuava a cresceva provocando l’effetto “palla di neve”, ovvero il circolo vizioso prodotto dall’incremento degli interessi (anche a causa della riduzione dell’inflazione) che a loro volta dovevano essere ripagati da altro debito.
Tuttavia vi era la speranza legata a un risanamento dei conti, alla diminuzione del disavanzo primario e a una maggiore crescita, che infatti dal 1984 era ripartita.
Nel corso del tempo le agenzie si sono rese conto di come fosse troppo tardi per un risanamento vero, nonostante il raggiungimento nel 1991 dell’avanzo primario, e in corrispondenza di un indebolimento della crescita e della crisi della lira nel 1992 hanno peggiorato il rating sull’Italia.
Moody’s in particolare è stata la più “spietata”, diminuendolo a “Aa3”, seguita da Fitch nel 1995, mentre Standard & Poor’s si è limitata a un downgrade a “AA”.
Negli anni successivi il rapporto debito/Pil è lentamente sceso da quasi il 120% del 1994 al 103,9% del 2007, sia grazie al crollo dei tassi di interesse, dovuto all’ingresso nell’euro, sia al mantenimento di un avanzo primario.
Questo si è riflesso in un miglioramento del rating delle agenzie, con Moody’s e Fitch che nel 2002 lo hanno fatto risalire allo stesso livello di Fitch, ovvero “Aa2” e AA.
La bassa crescita, però, era divenuta una costante della nostra economia e ciò ha minato la fiducia dei mercati internazionali, è per questo che Standard & Poor nel 2004 e Fitch nel 2006 hanno di nuovo peggiorato il loro giudizio, affibbiando un “AA-”.
Nel 2006 S&P ha effettuato a sua volta un altro downgrade, a “A+”.
Il colpo di grazia lo ha dato la grande crisi finanziaria del 2008-09, che nel caso dell’Italia è poi scaturita in quella del 2011-13. La recessione che ci ha colpito ha fatto schizzare il rapporto debito/Pil oltre il 135%, e i livelli di spread raggiunti nel 2012 hanno diminuito l’affidabilità dei nostri titoli.
La conseguenza è stata un ulteriore netto downgrade: Moody’s ha abbassato il rating sull’Italia a “Baa2”, S&P nel 2014 è andata oltre, arrivando a “BBB-“, ovvero 12, per risalire a “BBB” nel 2017, anno in cui anche Fitch ci ha fatto raggiungere lo stesso livello.
Non ci siamo più risollevati da quei rating, e, anzi, nel 2018 Moody’s ha ancora peggiorato il proprio giudizio, fino all’attuale “Baa3”.
L’emergenza pandemica ha influito poco: Fitch ci ha declassati nel 2020 a “BBB-“, ma solo per un anno e mezzo, fino a dicembre 2021.
Oggi siamo di un soffio sopra la soglia che ci divide dall’area di “no investment”.
Finire al di sotto sarebbe un colpo durissimo per la nostra stabilità in un momento in cui il rapporto tra debito e Pil, dopo il Covid, è ancora superiore al 140% e abbiamo bisogno di vendere i nostri titoli di Stato.
Salvarico Malleone
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