L’Europa non può perdere la produzione d’acciaio
La situazione in cui versano le acciaierie europee, soprattutto a ciclo integrale, è molto difficile se si analizza il contesto mondiale e questo impatta su tutta la filiera degli utilizzatori, dall’edilizia all’auto, all’industria del bianco.
La Commissione Ue non è riuscita a cogliere la forte apertura del presidente Biden, che ha abolito i dazi di Trump e aperto un negoziato su un’area di scambi protetta, in cui coinvolgere Stati Uniti, Canada, Messico, ma anche Giappone e Corea, oltre all’Europa.
Ma la condizione chiesta dagli americani è di proteggere l’area alle frontiere, imponendo un dazio del 25% all’acciaio che viene da fuori, specie nei confronti di quei Paesi che praticano unfair-trade.
Questa condizione non è stata condivisa dalla Ue, più votata al libero scambio e ritiene i dazi non compatibili con le regole Wto.
Nessuno a Bruxelles ha fatto una minima analisi di costi e benefici per capire se i forti investimenti in decarbonizzazione sarebbero stati economicamente sostenibili per le aziende siderurgichea ciclo integrale.
Per riconvertire 20 milioni di tonnellate, sulle 90 prodotte in Europa, servono 20 miliardi di investimenti. Chi li finanzia?
È un paradosso che l’Europa, nata dalla Ceca, la Comunità del carbone e dell’acciaio, non abbia fatto niente per salvare le sue produzioni siderurgiche a ciclo integrato.
Ma allargando lo sguardo problemi simili ce l’hanno anche altri settori energivori, come la carta, la ceramica, il cemento, il vetro.
Per evitare importazioni svantaggiose da Paesi terzi l’Europa ha pensato al sistema Cbam che tassa alla frontiera l’acciaio non pulito con i certificati verdi di CO2.
Ma il sistema Cbam è particolarmente complesso e facilmente aggirabile e i certificati di CO2 vanno a danno anche delle acciaierie europee che dal 2028/2029 non potranno più usufruire dei certificati gratuiti, affiancare i certificati gratuiti alla protezione della Cbam è stato considerato dalla commissaria Vestager un doppio aiuto di Stato.
E per questo l’Ue ha deciso di eliminarli provocando uno spiazzamento competitivo totale per l’acciaio prodotto con il carbone.
L’Ilva, per esempio, che su 4 milioni di tonnellate di acciaio emette 8 milioni di tonnellate di CO2, dal 2026 dovrà comprare certificati verdi per 800 milioni di euro.
Il suo acciaio andrà completamente fuori mercato.
Come sistema delle imprese europee occorre pretendere una analisi della futura politica industriale.
L’Europa rischia la deindustrializzazione con ripercussioni pesanti su occupazione e Pil.
I Paesi nordici, che hanno sempre meno industria, sono i più mercatisti e poi c’è l’evidente situazione di confusione della Germania, che non può imporre forti dazi ai prodotti cinesi nel momento in cui Bmw e Volkswagen realizzano in Cina il 40% del loro fatturato.
La Ue però non ha sanzionato i semilavorati di acciaio provenienti dalla Russia perché Italia, Spagna, Belgio e Polonia hanno imposto una finestra per le loro importazioni.
È stato un passaggio necessario altrimenti molte acciaierie rischiavano di chiudere per mancanza di semilavorato con conseguenti problemi occupazionali, il rischio è che questo modello prenda piede: l’upstream nei paesi dove ci sono incentivi e poche regole ambientali e il downstream in Europa.
Anche ArcelorMittal ci sta pensando, ha investito nella produzione di semilavorati in India, Usa e Brasile, ma non in Europa.
Per non perdere l’acciaio di Taranto serve un accordo tra pubblico e privato per stanziare gli investimenti necessari e passare progressivamente dagli altoforni ai forni elettrici.
E poi regole europee più flessibili che potrebbero arrivare dopo le elezioni di giugno.
Raimondo Adimaro
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