Ilva Taranto un intruglio tra incompetenze e trufferie
Non sarà come l’Alitalia solo perché non ci sarà una seconda e una terza occasione.
La spietata e lucidissima analisi dell’ex vicepresidente dell’Iri Riccardo Gallo pubblicata sabato 13 su Milano Finanza tuttavia non fa una piega.
La siderurgia in mano allo Stato è stata un disastro fin dall’inizio.
Ma non si può negare che pure chi l’ha comprata a metà degli anni ‘90 – qualcuno dice per un tozzo di pane – ci abbia messo del suo.
Anche se ciò è stato reso possibile sempre dall’insipienza della politica e dal comportamento dello Stato.
Da quando l’Ilva è stata venduta al gruppo Riva fino al suo commissariamento sono passati 17 anni, durante i quali si sono alternati 10 governi di tutti gli schieramenti e 8 ministri dell’Industria.
Per arrivare a scoprire, nonostante tutto quel tempo e tutta quella gente, che l’ambiente versava in condizioni paurose.
Invece nei quasi 12 anni trascorsi da quando l’Ilva è stata commissariata a oggi si sono alternati 8 governi, anche qui di ogni schieramento, o 8 ministri.
Per non risolvere neppure lontanamente il problema.
Se si vuole capire perché come nel gioco dell’oca siamo tornati ora al punto di partenza dopo aver gettato al vento decine di miliardi non si può che iniziare da qui.
Siamo un Paese con una classe dirigente politica modesta e concentrata solo sui propri interessi, governi da una durata media di poco più di un anno, una burocrazia dai contorni inaccettabili, una magistratura con problemi analoghi a quelli della classe politica.
Un Paese incapace di guardare al futuro e quindi di dotarsi di un minimo di politica industriale. Può un Paese così risolvere una questione come quella della più grande acciaieria d’Europa in un contesto ambientale non più sostenibile?
Che cosa è necessario per metterla nelle condizioni di sopravvivere – se si arriva alla conclusione che dell’Ilva di Taranto non se ne può fare a meno – ma anche di far sopravvivere la città che le sta intorno?
Ecco le domande preliminari che il sistema politico si sarebbe dovuto porre dall’inizio.
Invece è andato avanti alla giornata inseguendo gli eventi, cambiando idee in continuazione e creando così le condizioni per restare sotto la Spada di Damocle della magistratura.
Possiamo girarci intorno finché vogliamo.
E intestardirci a continuare così: statalizzando nell’illusione che prima o poi qualche altro privato (chi dopo quanto è accaduto?) esca allo scoperto.
Ma l’Ilva che finora abbiamo conosciuto presto o tardi sarà un reperto di archeologia industriale.
Un gigantesco reperto: 1.500 ettari, cinque volte la superficie di Bagnoli, sette volte quella del Principato di Monaco.
Talmente grande da rendere inimmaginabile il costo delle bonifiche.
E quando si arriverà a questo le responsabilità saranno chiare.
Come sono chiare per Alitalia.
Chi sostiene che l’Ilva è una fabbrica sbagliata nel posto sbagliato non ha tutti i torti.
Il primo errore fu fatto a metà degli anni ‘80, quando si rese necessario chiudere alcuni impianti siderurgici in Europa per decisione della Commissione Ue condivisa da tutti i 12 Paesi allora membri.
L’Italsider di Bagnoli era la fabbrica più avanzata del gruppo pubblico Finsider, anche perché l’Iri aveva appena fatto massicci investimenti.
C’era il governo del segretario socialista Bettino Craxi e la decisione fu invece quella di sacrificare Bagnoli e salvare Taranto.
I treni di laminazione di Bagnoli vennero smontati e con una punta di italico masochismo venduti ai concorrenti.
Mentre l’Italsider di Taranto, che aveva ripreso il vecchio nome di Ilva, si ingigantiva aumentando anche i problemi della città.
Dice tutto la circostanza che è stato necessario qualche anno fa inibire il pascolo entro un raggio di 20 chilometri.
E basta fare un giro al quartiere Tamburi, che confina con la fabbrica, per rendersi conto della situazione ambientale prodotta dal più grande impianto siderurgico del continente.
Quando si devono riverniciare i muri esterni di un’abitazione si può usare solo il colore rosso, perché tanto le pareti diventeranno comunque rossastre.
Da anni si parla della necessità di decarbonizzare la produzione dell’acciaio.
Qualunque altra soluzione non potrebbe assicurare a lungo l’attività di una fabbrica del genere.
In Europa la politica industriale dei Paesi più attenti all’ambiente ha imboccato quel binario.
Dal 2025 l’impianto siderurgico di Boden, in Svezia, produrrà fino a 5 milioni di tonnellate all’anno di acciaio con i forni alimentati a idrogeno.
La produzione dell’Ilva è oggi inferiore a 4 milioni.
In Italia invece fioccano chiacchiere e polemiche ma nulla di concreto.
Tutti sanno che per Taranto quella è l’unica possibilità, però non guardano in faccia la realtà.
La tecnologia esiste, servirebbe solo la volontà di cambiare rotta e investire.
Ed è chiaro che per un privato il contesto non è affatto incoraggiante.
La rottura con Arcelor Mittal lo dimostra.
E il bello è che non esiste un quadro di certezza neanche per il pubblico: è la ragione per cui la statalizzazione completa sarà un altro fallimento.
Eppure l’occasione era propizia.
Si sarebbero potuti usare i fondi del Pnrr destinandone una bella fetta a questa operazione anziché spargere molti di quei soldi in inutili piccolissimi rivoli locali o impegnarli per opere pubbliche in qualche caso discutibili.
Con un ministro competente per materia, Raffele Fitto, che fra l’altro è pure pugliese.
Apprendiamo invece la notizia che il miliardo del Pnrr stanziato per l’Ilva naviga nell’incertezza.
E poi che cosa si fa con un miliardo?
Per la decarbonizzazione di Taranto ne servirebbero 5,5. Ne avevamo a disposizione 200.
la Redazione
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