Mattarella al 50° Forum Ambrosetti di Cernobbio
Il Presidente della Repubblica è intervenuto in videoconferenza alla 50a edizione del Forum rimarcando tra l’altro come per l’Italia gli interessi pagati sul debito pubblico sono uguali a quelli di Germania e Francia messi insieme. La spiegazione è molto semplice, qualcuno ha deciso di far pagare interessi molto differenti e da parte del nostro Paese non si è fatta una doverosa opposizione a questa spada di damocle pur sapendo che Roma è un debitore che onora gli impegni assunti.
Abbiamo una tradizione di alcuni decenni di avanzi statali primari annui e con un debito pubblico allargatosi dal 1992 quasi esclusivamente a causa degli interessi.
Hanno voluto far pagare alla Penisola il radicale cambiamento che stava avvenendo con la scomparsa dei partiti tradizionali di governo dovuto al massiccio intervento manettaro del gruppo di “mani pulite”.
Di seguito un estratto dell’intervento di Sergio Mattarella
“Rivolgo un saluto molto cordiale ai presenti, a chi partecipa in collegamento e a quanti animeranno nelle diverse sessioni il confronto sugli incalzanti mutamenti del nostro tempo.
Il Forum ha aiutato l’Italia, in questi decenni, a confrontarsi con le realtà di un mondo sempre più connesso e in competizione, a ragionare su una dimensione globale, a comprendere quali le opportunità per un Paese come il nostro.
Di converso avete offerto a operatori e osservatori internazionali un palcoscenico dal quale attingere notizie autentiche da diretti protagonisti e una piattaforma di dialogo, resa ulteriormente preziosa dagli incontri tra personalità che proprio a Cernobbio hanno trovato uno spazio di colloquio.
Un’attività, quella sviluppata dalla vostra impresa, per la quale va rivolto apprezzamento agli animatori della European House-Ambrosetti, motore di questa iniziativa.
Riflettere, allargare l’orizzonte, non pretendere di guardare agli accadimenti contemporanei come se potessero meccanicamente essere collocati dentro stampi conosciuti.
E, quindi, assumere la responsabilità della ricerca di soluzioni per le sfide epocali che il mondo si trova di fronte, a partire da quella della sostenibilità dei modelli di sviluppo e, insieme, da quella del perseguimento di obiettivi che affermino la dignità delle persone e dei popoli, non più strumenti di ambizioni di potenza di singoli governi e gruppi dirigenti ma, secondo il progetto che proprio l’Europa si è trovata a perseguire in questi quasi settant’anni dal Trattato di Roma, impegnati a combattere le disuguaglianze e a promuovere la pace.
È questo l’ambito primario che, oggi, in una condizione internazionale caratterizzata da aspri conflitti, ci interpella.
Dove si giocano i nostri destini, dove possiamo esprimere pienamente le nostre aspirazioni, in concordia con popoli e nazioni con cui condividiamo i valori? Dove esprimiamo in maniera significativa, effettiva, incisiva la nostra sovranità?
Le critiche rivolte al progetto europeo lo vogliono, di volta in volta, come una mera “utopia consolatoria”, frutto delle sofferenze della Seconda guerra mondiale, oppure lo definiscono talvolta come espressione funzionale di un passo ulteriore del modello di sviluppo proprio alla globalizzazione capitalistica internazionale.
L’eredità dei passi che sono stati compiuti può essere riassunta – a badare al dibattito contemporaneo presente in alcuni Paesi europei – tra la considerazione dell’appartenenza all’Unione come un vincolo, talora soffocante, per coloro che vi hanno aderito, oppure come un’opportunità, forse l’unica per il nostro continente, collocato in un mondo – i Brics insegnano – fatto sempre più di giganti.
Sovente i critici omettono due aspetti: anzitutto l’ Unione europea è il primo esercizio di questa natura caratterizzato dalla partecipazione diretta dei popoli alle decisioni; inoltre, le scelte che, talvolta, sono oggetto di polemiche a livello locale – sconcertanti quando derivano da protagonisti che han preso parte a questi passaggi – sono il frutto non di normative imposte da oscuri poteri, bensì sono concordate in sede comunitaria tra i governi nazionali, la Commissione, il Parlamento Europeo, con procedimenti partecipati e trasparenti.
Va detto piuttosto che l’Europa è incompiuta, è un progetto in divenire.
Una volta imboccata la strada della unione economica rispetto a quella politica, a dettarne i ritmi sarebbero state – e sono state – le “solidarietà di fatto” preconizzate da Robert Schuman.
Ricordiamo solo le recenti lucide scelte operate dalla Commissione Von der Leyen a seguito della pandemia: sono apparse un segno incoraggiante di discernimento.
E, tuttavia, non si tratta solo di questo, che sarebbe, peraltro, già significativo.
Pensando, tra l’altro, alle politiche coraggiose come quelle assunte in materia di mutualità del debito, di Next GenerationEu.
Naturalmente – lo abbiamo vissuto, in misura addirittura totale, nel caso del Regno Unito – è sempre possibile tornare sui propri passi rispetto a queste scelte coraggiose e innovative se si è timorosi della necessità dell’Unione e della sua più efficiente operatività.
Ma quale giustificazione potrebbero trovare i decisori a sostegno della diserzione da un ruolo incisivo dei Paesi europei, nel loro insieme, nel contesto internazionale?
Il progetto europeo interessa, riguarda, l’intero pianeta: un progetto inclusivo, basato sul riconoscimento della pari dignità delle persone, dei popoli, dei Paesi.
Interroghiamoci: quale peso politico è stato consentito ai Paesi membri a seguito della esistenza della Unione Europea?
E’ eloquente il caso del Premio Nobel per la Pace conferito all’Unione europea nel 2012 dall’apposito Comitato norvegese. Un riconoscimento per una attività che ha contribuito a trasformare il continente europeo da un continente di guerra a un continente di pace.
E certamente non è poco, a fronte di quanto accaduto in questi ultimi tempi, con l’aggressione russa all’indipendenza dell’Ucraina.
Ma, proseguendo sul filo di questo ragionamento, facciamo riferimento, per un attimo, alle conseguenze che ebbe la denuncia unilaterale da parte statunitense degli accordi di Bretton Woods, il 15 agosto 1971.
Gli Stati-nazione europei si trovarono di fronte, con le rispettive valute, a una sregolata fluttuazione dei mercati.
L’aspirazione a una moneta europea che agisse da scudo protettivo nacque lì, dal desiderio di dotarsi di uno strumento efficace, vista la fragilità di quelli nazionali.
La crisi petrolifera del 1973-74 mise a nudo una situazione sempre più critica, alimentando la crescita del debito, con la necessità – ha riguardato l’Italia – di prestiti internazionali, naturalmente accompagnati da condizionalità da parte dei creditori.
Lo Sme, il Sistema Monetario Europeo, nel 1979, costituì una prima imperfetta risposta, sino alla crisi del 1992.
Il successivo Trattato di Maastricht, l’anno successivo, rappresentò un’assunzione di responsabilità, con la costituzione della Unione Economica e Monetaria e l’avvio del percorso che avrebbe condotto all’euro.
Si prese atto che governare in autonomia le grandezze macroeconomiche vedeva le singole nazioni inadeguate e che la manovra monetaria – rincorsa fra salari e prezzi, abituale per numerosi Paesi – era un disvalore, era tutt’altro che risolutiva.
I problemi da affrontare erano tali che quella decisione passò sostanzialmente senza che il dibattito in argomento assumesse toni accesi.
La discussione sul “vincolo esterno” nei confronti dei comportamenti delle economie dei Paesi membri non è banale: taluno infatti ritiene di poter invocare il rischio di subire scelte che sarebbero rivolte contro l’interesse nazionale. Anche se è singolare pensare a Governi che, scientemente, approvino regole le cui conseguenze tradirebbero l’interesse della popolazione che ha affidato loro il mandato di governare.
Sarebbero intervenuti sull’argomento autorevoli interlocutori come Guido Carli, Governatore della Banca d’Italia e poi Ministro del Tesoro, come Carlo Azeglio Ciampi, anch’egli alla guida di Via Nazionale e poi Presidente del Consiglio e della Repubblica – protagonisti in passaggi rilevanti come Maastricht e la scelta dell’euro.
Una domanda semplice: il vincolo esterno – o, piuttosto, interno, come sarebbe corretto dire, trattandosi di una scelta operata da una comunità nell’ambito di canoni di cui si è liberamente dotata – deriva dalle regole o dal debito?
Non è, quest’ultimo, il vincolo che concerne i Paesi indebitati?
Merita una riflessione che interpella in particolare la situazione debitoria dei Paesi dell’Unione e sollecita a mettere a sistema in termini fiscali ed economici quanto oggi appare affidato alla sola Banca Centrale Europea.
Il tema non è puramente finanziario, bensì costituisce una grande questione civile, sociale e persino democratica, intersecando questioni come quelle della libertà economica, dell’eguaglianza dei cittadini, delle politiche che assicurano l’esercizio dei diritti di questi ultimi, della credibilità internazionale di uno Stato.
A questo riguardo consentitemi una breve considerazione che riguarda la Repubblica Italiana.
Recenti studi hanno evidenziato come, nel 2023, a fronte di un debito accumulato dall’Italia per circa 2.863 miliardi di euro, e a un ammontare dei debiti di Francia e Germania che, sommati, valgono quasi il doppio, il nostro Paese ha pagato in interessi poco meno di quanto ne abbiano pagati insieme Germania e Francia.
Il motivo, com’è noto, è il diverso tasso di interesse.
Eppure l’Italia è un debitore onorabile, con una storia trentennale di avanzi statali primari annui, con un debito pubblico cresciuto in larga misura, dal 1992, principalmente a causa proprio degli interessi.
È evidente che molta strada rimane da fare per dare razionalità a un mercato dei titoli pubblici che trascura temi come il rapporto debito pubblico/ricchezza finanziaria netta delle famiglie.
Il termometro della percezione dei mercati sull’affidabilità di un Paese può rivelarsi, come appare da questo esempio, quanto meno opinabile.
Una dimensione europea potrebbe restituire verità.
Attenzione, il mio non è un invito a trascurare il debito: sono pienamente consapevole dell’esigenza ineludibile di abbatterlo. Si tratta di un invito a procedere su una strada che assuma con precisione i fondamentali dell’economia come criterio e, inoltre, di un invito a completare l’edificio finanziario europeo in maniera più rassicurante per tutti, ponendovi mano sollecitamente.
Sono solo esempi, ruolo internazionale e gestione degli aggregati finanziari, di ciò che può essere l’Europa.
Rapporti importanti sono stati richiesti dalla Commissione Europea a personalità di rilievo.
Ricordo, per tutti, gli ex Presidenti del Consiglio italiani Draghi e Letta.
Completare il mercato dei capitali, le transizioni verde e digitale, affrontare le questioni della pace e della difesa, rispondere alle domande di competitività, dettare regole per gli OTT affinché i cittadini non siano oggetti nelle loro mani, nonché il tema della Intelligenza artificiale, sono tutti capitoli necessari se non indispensabili.
Eppure forse non basta.
I traguardi di libertà, benessere, giustizia non possono attendere.
Ho fatto cenno alla necessità di non pretendere di affrontare le sfide della contemporaneità con l’atteggiamento di chi pensa di avere già visto tutto e, dunque, ritiene che rivolgere lo sguardo al passato basti per trovarvi ogni soluzione.
Lo sguardo va rivolto al futuro.
Sono grato, quindi, dello sforzo che verrà sviluppato in questi giorni perché i valori propri della identità europea possano trovare cittadinanza nel mondo e contribuire a costruire una realtà rispettosa della dignità di ogni essere umano, a partire dalla pace come valore.
Non bisogna avere paura delle riforme, di guardare avanti, di immaginare un’Europa sempre più perfezionata nella sua architettura e sempre più inclusiva di quei popoli, come quelli dei Balcani occidentali, che aspirano da tempo di partecipare a questa avventura.
Nella pubblica opinione si riaffacciano, sono presenti, spinte che immaginano, senza motivo, un futuro frutto di nostalgie di un passato che ci ha riservato, invece, spesso, tragedie.
Ciascuna generazione viene chiamata a combattere contro fantasmi che sperano nell’oblio per poter riemergere con vesti nuove.
Tocca alle forze della società civile, nella loro interezza, essere consapevoli che difendere il quadro della civiltà in cui vivono, e che contribuiscono a definire, è compito che non soltanto li interessa ma li riguarda.
La storia dell’integrazione europea, a partire dal dopoguerra, dalla Comunità per il carbone e l’acciaio, con la vitalità delle forze culturali, sociali, economiche dei diversi Paesi, sta a testimoniare come un quadro di libertà, giustizia sociale, aspirazione alla pace, esprima valori destinati a prevalere sui disvalori dell’egoismo, della contrapposizione, del razzismo, della violenza, dell’odio, della guerra.
Con fermezza, con determinazione, proseguiamo su questa strada”.
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